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Escape RoomLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio27 febbraio 2019Voto: 6.0
Prima ancora che si torni indietro di tre giorni, è una tragica sequenza di apertura che tanto ricorda quella conclusiva del quinto “Saw” ad introdurre la quasi ora e quaranta di visione che sceglie in qualità di ambientazione – come il titolo stesso lascia intuire – una di quelle stanze che, in voga a cominciare da terzo millennio avviato, sono il teatro di un gioco di logica i cui concorrenti lì rinchiusi devono risolvere entro un certo tempo enigmi e indovinelli al fine di scovare una via di fuga.
Del resto, tra chiavi da trovare, presenza di radiografie e perfino antidoti, non pochi sono gli elementi che sembrano rimandare al popolare franchise thriller iniziato nel 2004 da James Wan, non a caso produttore dell’”Insidious: L’ultima chiave” che era stato diretto dallo stesso Adam Robitel posto qui dietro la macchina da presa. Come pure, a partire da un evidente sottotesto relativo all’avidità, le questioni morali destinate ad emergere man mano che facciamo conoscenza con il giovane Ben Miller alias Logan Miller e con gli altri cinque sconosciuti che finiscono coinvolti nella (a loro insaputa) sempre più pericolosa impresa nel tentativo di accaparrarsi l’ingente premio in denaro previsto per colui che ne uscirà vincitore. Cinque individui che, dalla problematica Zoey Davis interpretata da Taylor Russell al nerd sapientone Danny Kahn, dalle fattezze di Nik Dodani, proprio come nel caso delle vittime scelte di volta in volta dal sadico enigmista Jigsaw si vedono costretti a decifrare indizi e cercare oggetti scenici che potrebbero condurli verso la salvezza. Ma, una volta presentati tutti i personaggi, comprendenti anche i Jason Walker, Amanda Harper e Mike Nolan rispettivamente incarnati da Jay Allis, Deborah Ann Woll e Tyler Labine, a differenza di quanto accade nella serie che vede protagonista Tobin Bell non si privilegia l’insostenibile splatter da torture porn, bensì si provvede a costruire diverse situazioni di tensione che, in ogni caso, sono finalizzate a portare alla morte. E si spazia da un insostenibile aumento di calore al monossido di carbonio in agguato, passando per la costrizione ad un’escursione al gelo e il momento che, in una stanza capovolta e sulle note della sempreverde “Downtown” di Petula Clark posta a fare da inquietante commento, non può fare a meno di mettere a dura prova lo spettatore maggiormente sofferente di vertigini. Non a caso, teso nella giusta maniera, quest’ultimo rappresenta, di sicuro, proprio il momento più riuscito dell’intera operazione, in parte debitrice anche nei confronti di “The cube – Il cubo” di Vincenzo Natali (in fin dei conti, modello a cui guardò probabilmente anche il citato Wan) e che approda ad una rivelazione finale che non può fare a meno di richiamare alla memoria l’aspetto di denuncia sociale proposto nella trilogia “Hostel”. Con la risultante di un prodotto che non manca di coinvolgimento nello scoprirsi progressivamente un attacco in fotogrammi alle diaboliche e spesso ignote malefatte legate al potere economico, ma che, a causa della sua eccessiva propensione a pescare nei cult menzionati, rimane semplicemente vedibile e nulla più. La frase dal film:
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