Cuvari noci (Guardiani di notte)
Ci sono (purtroppo) alcuni tipi di film che non mostrano particolari meriti dal punto di vista dello studio dell'inquadratura, della cura del montaggio o nell'originalità della narrativa. Si tratta in effetti di non-film, che hanno scopi completamente diversi, i cui pregi - se ve ne sono - sono totalmente extra artistici. Questo è il caso di "Guardiani di notte" del regista bosniaco Namik Kabil, ambientato in una lunga notte in un quartiere periferico di una Sarajevo spettrale, deserta, abitata da fantasmi del passato e da immagini di un futuro apparentemente vuoto e senza sbocco.

Due sono i protagonisti del film: da una parte Mehir, sposato e senza figli, afflitto da dolori di stomaco e dall'altra Brizla, alle prese con una dieta che lo tortura e non lo porta in realtà da nessuna parte. Gli ambienti sono quelli di due enormi spazi espositivi di negozi di arredamento e di sanitari, così vuoti ed agonizzanti nella prospettiva notturna che è difficile immaginarli popolati anche di giorno. I due passano il tempo come possono e il loro lavoro non sembra avere alcuna utilità: non ci sono mai stati furti e sembra addirittura improbabile che ve ne siano. Dall'altro lato della strada, un veterano di guerre fin troppo recenti sbraita, vomita assurdità, lancia oggetti e tuttavia nelle sue esplosioni di rabbia è del tutto innocuo, al limite di una curiosa tenerezza. I dialoghi sono minimali, non c'è riferimento esplicito al passato recente, eppure questo striscia sottopelle in maniera più forte di ogni evocazione diretta.
Unica comparsa ulteriore in questo dramma immobile è un poliziotto dalla pruderie omofobiche. Per il resto ci sono solo voci telefoniche, così lontane in questa notte senza fine da sembrare quasi perse.

Quello che il regista tenta è in realtà una rappresentazione di vuoto, la messa in scena di una realtà politica e sociale in attesa non tanto di un cambiamento quanto piuttosto di una ragione per andare avanti.
Piuttosto caratteristica da questo punto di vista è la scena in cui uno dei due protagonisti sceglie una suoneria per il suo vecchio cellulare mentre in sottofondo la radio fa un lungo resoconto della crisi di una fabbrica tessile locale. Eppure in un quadro apparentemente così sterile Namik Kabil vuole inserire degli elementi di speranza, che possono essere un gattino da accudire, la notizia di una nuova nascita o anche un amicizia coltivata in ambienti deserti.
E' però molto faticoso apprezzare questi elementi in una dilatazione dei tempi quasi totale, tra dialoghi apparentemente sconnessi ed una linea narrativa così esigua da potersi risolvere in pochissimi minuti.
A questo film quasi volutamente incompleto resta il merito della rappresentazione di un disagio di un paese in un periodo storico di passaggio. Ma nulla più.

La frase: "Se non si può mangiare una testa di vitello a colazione, che vita è?".

Mauro Corso

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