Ce que mes yeux ont vu
“Non è il soggetto che viene rivelato dal pittore, è il pittore che, sulla tela dipinta, rivela se stesso”. E’ uno dei tanti, precisissimi aforismi di Oscar Wilde e ben si potrebbe applicare all’ossessione che spinge Lucie, la protagonista di “Ce que mes yeux ont vu”, a indagare insistentemente sull’autorialità di Wattreau. Una ricerca che parte come progetto universitario per diventare una vera e propria ossessione: chi è quella donna che il pittore francese rappresenta sempre di schiena in tutte le sue opere? Perché viene ritratta sempre nella medesima, e celata, posa?
Interrogativi che portano Lucie a vivere un percorso parallelo alle scoperte che di volta in volta effettua. Potrebbe aver trovato l’amore in quel mimo che gli dona una misteriosa fotografia, ma si perde nella fissazione e si lascia sfuggire tutto. Il racconto corre così su due piani narrativi paralleli, in equilibrio tra storia evocata e storia vissuta. E se non si ha il coraggio di scegliere dove andare, ma si lasceranno correre gli eventi, allora sarà il tempo a piombare addosso rendendo impossibile girarsi da un’altra parte.. Laurent de Bartillat, regista e autore anche della sceneggiatura, costruisce così un riuscito “piccolo” film, dove il piccolo va inteso in termini di “ambizione” della vicenda. Il piccolo “giallo” sull’arte ben si fonde con la drammaticità del reale, diventandone emblema. L’ambientazione colta, la Commedie francaise e la pittura del diciassettesimo secolo, arricchiscono questo senso di leggerezza per le tematiche trattate, ma aumentando lo spessore dei dialoghi. Lo stile rimane in bilico tra noir e dramma intimista, trovando nell’enigmatico volto della protagonista Sylvie Testud un ottimo strumento per indagare sulla natura dell’individuo. Ne esce un film di meno di un’ora e mezza che non lascerà grandi tracce dietro di sè, ma che si seguirà con interesse. Un’opera prima incoraggiante.

La frase: "Io per questa ricerca ho perso mia moglie".

Andrea D’Addio

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