Camille Claudel, 1915
La storia di Camille Claudel si lega indissolubilmente con due figure: quella di Rodin, suo maestro e amante per oltre dieci anni, e suo fratello, lo scrittore Paul Claudel. Una vicenda che ha inizio a fine Ottocento e si snoda fino alla prima metà del Novecento, ma che Bruno Dumont decide di raccontare (e condensare) in un anno, il 1915, dove la Claudel è rinchiusa già da vent’anni in un asilo psichiatrico nel sud della Francia. Una scelta registica che implica delle difficoltà, su tutte quella di raccontare la vita di una persona in un lasso di tempo così ristretto e ambientarla in un luogo che non permette grande libertà d’azione e in cui il contesto storico-sociale non può che definirsi solo di riflesso. Mancanze che Dumont riesce a sopperire affidando tutto il racconto al volto della Binoche: la sua è un’interpretazione ricchissima, a tratti contenuta, a tratti vibrante e tragica, che è il motore e l’anima del film, ne condensa il senso e ne racchiude la carica emotiva.
Una scelta non casuale e che mette in luce l’esigenza che sta alla base dell’opera: indagare il dolore, raccontare la sofferenza di una donna intrappolata in un luogo che le è del tutto estraneo, mostrare il potenziale sadico di un’ossessione. E Bruno Dumont riesce nell’impresa grazie ad una trovata narrativa davvero efficace, ovvero una continua dialettica tra l’interiorità di Camille e il mondo esterno incarnato dal fratello Paul, la cui vita è investita da una spiritualità da poco conquistata. Il suo è un Dio onnipotente che si esprime in più forme e in ogni aspetto della vita, e che lo spinge a legittimare la situazione della sorella, rendendolo cieco al suo travaglio interiore.
Da questo confronto emerge anche un punto di vista interessante sulla forza dell’arte: Paul vede nel gesto artistico un marchio, uno sfogo necessario ma sottilmente pericoloso che non tutti riescono a sopportare. Per Camille la scultura è legata ad un passato da dimenticare ma è anche quella cosa di cui può riappropriarsi una volta raggiunto l’equilibrio tanto agognato.
Tematiche non nuove per Dumont, che trova così nella storia della Claudel materia stimolante, realizzando un’opera ostica, a tratti morbosa, ma dotata di un’eleganza ipnotica e di un’invidiabile capacità analitica. Un film, insomma, che esprime a pieno lo sguardo tagliente del suo autore e trova una sintesi estetica e formale che è una perfetta fusione di rigore "classico" e di uno sguardo assolutamente contemporaneo.
La frase:
"Life is a parable, Camille!".
a cura di Stefano La Rosa
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