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Black sea











Quando viene licenziato dalla compagnia per la quale si è occupato per anni di recupero relitti, il capitano di sommergibili Robinson (Jude Law) si ritrova completamente solo, con pochi spiccioli in tasca e una moglie e un figlio piccolo persi già da tempo per le troppe assenze che quel tipo di lavoro comportava.
Insieme ad alcuni ex-dipendenti della stessa azienda, Robinson viene a sapere di un carico di lingotti d'oro affondato e rimasto sul fondo del Mar Nero dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Di lì a decidere di tentarne il recupero il passo è piuttosto breve. Con un equipaggio di fortuna, composto per metà da inglesi e per metà da russi, l'uomo si imbarca su un vecchio e malandato sottomarino per un'avventura resa particolarmente impervia sia dalle difficili condizioni ambientali che dalle derive comportamentali cui gli uomini a bordo andranno incontro, una volta che la disperazione si troverà a fare i conti con la loro avidità.
Sembra proprio un film d'altri tempi Black Sea.
Una di quelle storie virili e prive di fronzoli, di quelle che una volta giravano autori come Robert Aldrich o John Huston, in cui un manipolo di brutti ceffi è costretto a coabitare in una piccola porzione di spazio e poi succeda quel che deve succedere.
Ovvio che la riuscita di un film di questo tipo poggia, per forza di cose, su un bilanciamento particolarmente accorto di scrittura, regia e qualità recitative e, in questo caso, l'ex-documentarista scozzese Kevin MacDonald riesce nell'impresa di conciliare questi elementi in maniera godibilissima, garantendo due ore di puro spettacolo.
Dopo un breve incipit, interlocutorio e puramente funzionale a introdurre lo spettatore all'azione, la macchina da presa si inoltra nei corridoi strettissimi di questo budello d'acciaio e lascia che la tensione cresca inesorabilmente, senza sosta, accumulando sguardi prima pieni di sospetto e poi di odio e, più in generale, la sensazione che tutto ciò che potrebbe andar male finirà comunque con l'andar male.
Il meccanismo è un topos della drammaturgia western ed è lo stesso che, a partire dal classico Il tesoro della Sierra Madre fino ad arrivare al bellissimo e sottovalutato Soldi sporchi di Sam Raimi, attraversa la storia del cinema e spinge una serie di personaggi - il caso vuole che siano quasi sempre maschi - a scannarsi per un malloppo su cui presumibilmente nessuno riuscirà a mettere le mani.
Black Sea aggiorna il canovaccio portando in dote giusto lo spettro di una crisi economica che, in nome della lotta per la sopravvivenza, tende a sacrificare per primi i più deboli.
Il motore portante della storia è dunque il tentativo di questi ultimi di avere un riscatto.
La volontà di riscatto che porta uomini di nazionalità e lingue differenti ad intendersi alla perfezione quando è in gioco un obiettivo comune, che siano tonnellate di lingotti d'oro o la semplice lotta per la sopravvivenza.
Ed è la stessa volontà che spinge Robinson ad uscire dalla vergogna con cui si ritrova a spiare suo figlio fuori da scuola per entrare in un sottomarino antidiluviano in cui, nascosto alla vista degli altri, tentare per l'ultima volta di opporsi ad un destino considerato ingiusto.
Ed è assai bravo Jude Law a rendere appieno questo stato d'animo.
La cieca determinazione che gli inietta gli occhi e lo porta a tentare l'impossibile, si trasforma però ben presto in follia, fino a trasformarlo in un Kurtz che, lungi dal tenere alto lo spirito dell'equipaggio, finisce in realtà col rappresentarne il cuore di tenebra.
Protagonista a parte, ad essere azzeccata è la scelta dell'intero cast, così pieno di volti vissuti e poco raccomandabili come quello dell'australiano Ben Mendelsohn, uno dei pochi motivi d'interesse del recente Exodus - Dei e re di Ridley Scott (era il dissoluto vice re Hagep), o del lanciatissimo Scoot McNairy.
MacDonald, dal canto suo, asciuga ulteriormente uno stile già secco e conciso, apprezzato sia ne L'ultimo re di Scozia che in The Eagle, e indovina almeno un paio di scene di assoluto impatto emotivo.
Una in particolare, quella che mostra alcuni membri dell'equipaggio attraversare l'abisso tra il sottomarino e il relitto tedesco, avviluppa lo spettatore in un meandro di oscurità se possibile ancora più claustrofobica degli stessi interni del sottomarino ed è girata con una tale perizia tecnica da togliere il fiato.
Poi qualcuno potrà disquisire della scarsa introspezione psicologica che connota i singoli personaggi, ma sarebbe un esercizio piuttosto sterile.
L'intero equipaggio, infatti, è per lo più composto da una serie di idealtipi umani (lo psicopatico, il ragazzino inesperto, il vecchio saggio) tipici del genere di riferimento e funzionali al corretto svolgimento della storia.
Il valore aggiunto del film è semmai la totale assenza di un villain in carne e ossa.
I nemici contro i quali Robinson e il suo equipaggio si trovano a dover combattere, infatti, sono, in primo luogo, l'abisso di oscurità al di fuori del sommergibile e poi gli "altri"; quegli "altri" cui si fa riferimento più volte nell'arco del film, in riferimento a un sistema economico e sociale che sembra essersi dimenticati di loro.
Un po' come il sommergibile sovietico che, all'incirca a metà film, ne incrocia la traiettoria senza accorgersi minimamente della loro presenza.

La frase:
"Siamo da qualche parte, tra questo punto e quest'altro".

a cura di Fabio Giusti

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