Black book
Erano vent'anni che il regista Paul Verhoeven non faceva un film nel suo Paese, l'Olanda. Il trasferimento negli States non si può certo dire che sia andato male: Robocop, Atto di forza, Basic Instict, Starship Troopers: tutti lavori entrati a torto o a ragione, nella categoria "cult".
Perché è tornato? Domanda lecita, la cui risposta è altrettanto scontata: aveva bisogno di un film che avrebbe potuto progettare con i giusti tempi e modi, senza fretta e senza interferenze…
Ispirandosi ad una serie di vicende realmente accadute, ciò che viene raccontato in Black Book è la storia di alcuni resistenti olandesi all'occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Protagonista una ex cantante ebrea, la bellissima Rachel Steinn (Carice Van Houten), che una volta persi tutti i genitori durante una disperata fuga in battello verso il Belgio, cerca di aiutare come può i patrioti. Non tutto però è come sembra...ed infatti il film passa dopo oltre un'ora e mezza, dal genere drammatico/azione a quello ancora più avvincente del thriller spionistico.
Un film europeo fatto in Hollywood style, ma affatto convenzionale (potrà mai esserlo Verhoeven?). Tante storie sono state raccontate sulla seconda guerra mondiale: eroi, cattivi, morti e salvataggi miracolosi. Black book di originale ha il voler confondere le carte. Nessun buono è davvero buono, la protagonista si mette con un nazista, tutti a prescindere dal proprio ruolo sono pronti a fregare il prossimo. La guerra genera egoismo (oltre che, talvolta, eroismo), e così la lucentezza del denaro diventa l'unica cosa affidabile. Ma è vero anche il contrario i soldi sono l'emblema delle nostre aspirazioni materiali che hanno nella sopraffazione violenta dell'altro l'unico sbocco. Eccoci quindi in un circolo vizioso. Chissà se è proprio questo ciò che ci dice il regista olandese e i suoi sceneggiatori, nell'ultima, "raggelante" scena... I
La frase: "Di questi tempi, mai fidarsi!".
Andrea D'Addio
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