Big River
Esiste una categoria di film che hanno la straordinaria dote di essere contenuti tutti in una sceneggiatura di massimo una quindicina di pagine, vista, la straordinaria carenza di dialoghi e accadimenti. Un pregio di sintesi che si tramuta, sulla pellicola, in un'ordalia di due ore per lo spettatore intrappolato tra primi piani silenziosi e al tempo stesso privi di qualunque vocazione poetica. Big river è uno di questi film. Si tratta della storia di un improbabile terzetto che scorrazza per il sud degli Stati Uniti. Un backpacker nullafacente di origine giapponese, una ragazza americana figlia di un ubriacone ed un pakistano alla ricerca della moglie scacciata anni prima si incontrano sulle strade di una deserta periferia. La ragazza prende una cotta per il giramondo ma lui, sognatore ed immaturo, una volta finito nel suo letto se ne stanca. Imparerà dal silenzioso pakistano cosa significa aver cura di qualcuno. Riassumendo in una morale: tutti abbiamo problemi ma insieme siamo capaci di risolverli. "La inarrestabile catena di violenza - dice il regista - le contraddizioni sociali, la lotta tra ideologie contrapposte, le guerre infinite" stanno logorando il mondo, ma sembra che il cinema di oggi "si schieri costantemente da un lato del conflitto piuttosto che trovare modi per promuovere la comprensione delle differenze". E aggiunge "E' mia speranza che questo film apra ad un nuovo futuro nel nostro modo di pensare". Nelle intenzioni del regista, dunque, il film doveva costituire una sorta di road movie sulla fratellanza e il dialogo tra popoli diversi. Il risultato è l'opposto visti gli istinti omicidi che genera anche nello spettatore più pacifico. Il titolo è un riferimento al Rio grande, fiume che attraversa la Monument Valley in Utah in cui gran parte del film è girata.

La frase: "Get the fucking out of my car!".

Michele Alberico

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