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Big Eyes











Sebbene quanto raccontato si svolga nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sia tratto da fatti realmente accaduti e alla sua direzione troviamo il Tim Burton che, inizialmente, ne sarebbe dovuto essere soltanto produttore per lasciare la regia agli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski, i quali gli curarono lo script di “Ed Wood”, non abbiamo cupe immagini in bianco e nero e grotteschi individui del sottobosco cinematografico horror a stelle e strisce.
Anche se, come il trashissimo autore di “Plan 9 from outer space” su cui si incentrò la pellicola del 1994 venne considerato il peggior regista dei suoi tempi, pare che i qui protagonisti coniugi pittori Walter e Margaret Keane, secondo qualcuno, non rientrino affatto tra i soggetti degni di nota della loro categoria.
Quindi, se da un lato quella portata in questo caso in scena è la storia vera di una delle più leggendarie frodi artistiche della storia, in quanto gli enigmatici ritratti di bambini dai grandi occhi tramite cui l’uomo raggiunse un enorme successo erano, in verità, opera di sua moglie, dall’altro i due personaggi controcorrente altro non sono che una coppia di diversi, outsider, decisamente cari a colui che ci ha regalato “Edward mani di forbice” e “Il mistero di Sleepy Hollow”.
Colui che, pur avendo quasi del tutto perso la sua propensione per le atmosfere dark una volta apertosi il XXI secolo, lascia comunque riconoscere il proprio personale tocco sia nella capacità di conferire quasi il sapore di una favola a quello che, fondamentalmente, è un biopic, sia nella breve sequenza nel supermercato, che tira in ballo tizi dalle iridi assurde richiamando alla memoria i vecchi film di fantascienza.
Per non parlare di una DeeAnn alias Krysten Ritter che non poco ricorda la Barbara Steele del gotico nostrano e l’evidente omaggio al Federico Fellini de “La dolce vita” nel momento in cui Guido Furlani fa la sua mastroiannica entrata nei panni dell’industriale Dino Olivetti, con tanto di paparazzi verbalmente citati.
Del resto, non dimentichiamo neppure che è il Terence Stamp che per il compianto cineasta riminese interpretò un episodio in “Tre passi nel delirio” a ricoprire il ruolo del critico John Canaday, tutt’altro che amante dei dipinti dei Keane: lei con le fattezze di una Amy Adams bionda che avrebbe fatto impazzire Sir Alfred Hitchcock, lui, praticamente inventore della commercializzazione di massa dell’arte, incarnato da un Christoph Waltz strepitoso come sempre, soprattutto nel corso della divertente situazione del processo.
Mentre i televisori accesi trasmettono “Perry Mason” e la splendida fotografia di Bruno Delbonnel provvede a restituire in maniera fedele i colori dell’epoca in cui spopolarono musicalmente Little Richard e i Beach boys (la loro “In my room” è inclusa nella colonna sonora)... al servizio di un’operazione che, volta, inoltre, a ribadire che gli occhi sono lo specchio dell’anima e che un artista non annuncia il suo capolavoro, rientra, senza alcun dubbio, tra i meno personali ma migliori lavori burtoniani del quindicennio 2000-2015.

La frase:
"Li ho dipinti io, ognuno di questi occhioni".

a cura di Francesco Lomuscio

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