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Beasts of No Nation

Il genio di Cary Fukunaga incanta alla 72esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con “Beasts of No Nation”. Il film è un racconto che era in cantiere per il regista americano di origine giapponese sin dal 2005, sin da quando aveva l’etto l’omonimo libro scritto da Uzodinma Iweala, e adesso, con l’aiuto di Netflix che lo co-produce e diffonderà a partire ad ottobre, ha visto la luce.
Il vincitore dell’Emmy Award per la serie capolavoro “True Detective” mostra ancora una volta il suo grande talento dietro la macchina da presa, con delle inquadrature e alcuni giochi di luce spettacolari che riescono a portare lo spettatore direttamente nelle foreste africane.
Il cast è stato scelto interamente in loco con l’aiuto di alcuni talent scout e il protagonista è stato individuato in Abraham Attah, un ragazzo di appena 12 anni e autore di una prova positiva oltre ogni più rosea aspettativa. La guest star è Idris Elba, attore famoso al grande pubblico per “Pacific Rim” e “Thor”.
La storia è di quelle crudeli e che lasciano un segno profondo e indelebile in chi la osserva. Agu è un ragazzo che vive in un villaggio africano con la propria famiglia, nella cosiddetta zona cuscinetto in cui le armi da fuoco ancora non sono ancora arrivate. Lui e la sua famiglia sono felici e vivono con il sorriso e cantando lodi a Dio, ma tutto questo è destinato ad interrompersi brutalmente in modo improvviso. Inizia una vita da “bambino soldato” per il giovane Agu che vede nel Comandante un nuovo padre dopo aver perso la sua famiglia. L’addestramento per entrare nella NDF viene descritto in modo minuzioso, mostrando tutti i rituali più sadici e cruenti.
Una parabola folle, che porta un 12enne ha rinnegare la sua gioia per la vita a causa delle fredde braccia della guerra. Tutti i ragazzi vengono indottrinati ad uccidere e a combattere fino all’ultimo sangue, ma alla fine l’interesse sarà soltanto del loro “padre adottivo”.
“Beasts of No Nation” parla con gli occhi di Agu, ma potrebbero essere quelli di qualsiasi altro bambino chiamato a vivere in situazioni talmente dure e cruenti da sembrare irreali. Agu man mano che passano le scene è sempre più consapevole che la sua vita non sarà mai più la stessa e che già a 12 anni è finito il tempo di considerarsi bambino. I corpi dei compagni/amici abbandonati dietro di lui lo portano a riflettere su cosa sia la morte, che in alcuni frangenti è quasi la liberazione da una spirale di violenza e sofferenza.
Fukunaga sceglie di raccontarci la violenza in modo diretto, mostrandocela in alcune scene che sfociano nello splatter, rendendosi così diverso da alcuni maestri che hanno raccontato la guerra come Stanley Kubrick in “Full metal Jacket”. “Lei mi parlava come se fossi un bambino, ma io ho visto la guerra. Io sono vecchio”, pensa il protagonista in uno dei passaggi più riflessivi e queste parole fotografano perfettamente cosa abbia lasciato la guerra nei bambini soldato miracolosamente sopravvissuti.
I colori e la musica si mischiano con il fango e il sangue nell’opera di Fukunaga e al termine ciò che resta è una sensazione di grande vuoto, come se di colpo la cortina di fumo davanti ai nostri occhi sparisse per lasciare spazio alla realtà più dura e fredda.
Il piccolo Abraham Attah ha ricordato molto la piccola star de “Il re delle terre selvagge” Quvenzhané Wallis e chissà che la sua vita non abbia avuto una grande svolta.
Le oltre due ore di film sono forse un’esagerazione e poteva essere accorciato, ma ogni tassello è perfettamente al suo posto in un film documentario destinato a restare nella storia della rassegna veneziana.

La frase:
"L’unico modo per smettere di combattere è la morte".

a cura di Thomas Cardinali

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