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Anamorph
Da quando David Fincher, nell’ormai lontano 1995, firmò quel già classico del thriller corrispondente al titolo di "Seven", non poche volte il cinema dei serial killer ha finito – più o meno involontariamente – per rifarvisi, da "Saw-L’enigmista" (2004) di James Wan a "The horsemen" (2008) di Jonas Åkerlund.
Non sembra fare eccezione il secondo lungometraggio di Henry Miller, il quale, a tre anni dalla commedia "Late watch" (2004), immerge in una bella fotografia da poliziesco metropolitano Anni Settanta le indagini portate avanti dal detective Stan Aubray che, interpretato da Willem Dafoe ("Antichrist"), sospetta legami tra il vecchio e risolto caso riguardante l’omicida conosciuto come Zio Eddie e un nuovo pericoloso assassino le cui vittime vengono bizzarramente conciate prendendo ispirazione dalle opere d’arte.
Chiaro, quindi, che a mancare non siano tanto raccapriccianti quanto affascinanti immagini di cadaveri ridotti decisamente male, mentre fanno la loro progressiva entrata in scena fondamentali personaggi che hanno i volti di Scott Speedman ("Underworld"), Clea DuVall ("Fantasmi da Marte") e dell’immancabile Peter Stormare
("Constantine").
La facciata esplicitamente orrorifica dell’operazione, però, viene in realtà posta in secondo piano per lasciare molto spazio al suo lato investigativo, tanto che veniamo di volta in volta a conoscenza dei macabri rituali del folle soltanto dopo il ritrovamento delle salme da lui seminate.
Di conseguenza, pur trattandosi di un prodotto che, senza generare troppi entusiasmi, si lascia tranquillamente seguire per i suoi oltre 100 minuti di durata, "Anamorph", a causa soprattutto dell’eccessiva verbosità che lo caratterizza, rischia a lungo andare di rispecchiare certi ritmi di narrazione tutt’altro che incalzanti spesso alla base dei lavori destinati al piccolo schermo.
E ci spinge ancora una volta a chiederci quale sia l’effettiva utilità di tutti questi emuli di celluloide del succitato film di Fincher, al cui lodevole risultato artistico, oltretutto, non riescono ad avvicinarsi minimamente.
La frase: "E’ un puzzle umano, ci serve un antropologo per rimettere a posto i pezzi di questa persona".
Francesco Lomuscio
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