Amici di letto
Con le fattezze della Mila Kunis di “Codice: Genesi” (2010), Jamie lavora a New York come responsabile delle risorse umane e riesce a convincere il bravo art director Dylan alias Justin Timberlake a trasferirsi nella Grande Mela; senza immaginare che, a causa delle loro delusioni sentimentali, arriveranno ad intraprendere un rapporto volto esclusivamente al divertimento sessuale, senza alcun coinvolgimento del cuore.
Se vi sembra di aver già sentito la storia su cui si costruisce il lungometraggio di Will Gluck, regista del non disprezzabile “Easy girl” (2010), non vi state affatto sbagliando, perché, in tempi recenti, un soggetto analogo è stato sfruttato sia da Edward Zwick per il brutto “Amore e altri rimedi” (2010), interpretato da Anne Hathaway e Jake Gyllenhaal, che da Ivan Reitman nell’inutile “Amici, amanti e…” (2011) con Natalie Portman e Ashton Kutcher.
Tra l’altro, le similitudini non sembrano fermarsi qui, perché, mentre nel film di Zwick veniva tirato in ballo il morbo di Parkinson, in questo caso abbiamo il padre in pensione di Dylan che, con le fattezze del Richard Jenkins di “Blood story” (2010), si rivela affetto da una lieve forma di Alzheimer.
Quindi, man mano che assistiamo alle grottesche performance dei due sotto le coperte e ascoltiamo le loro avversioni nei confronti degli illusori messaggi positivi lanciati dalle commedie romantiche americane, non impieghiamo molto tempo ad avvertire il colpo di sonno, ammorbati da una vicenda che, nelle intenzioni del regista sulla scia delle pellicole interpretate da Katharine Hepburn e Spencer Tracy, non riesce in alcun modo a divertire e ad apparire originale, ricorrendo di continuo a canzoncine orecchiabili (“Hey, soul sister” dei Train e “Boys don’t cry” di Grant Lee Phillips nel mucchio) nell’evidente tentativo di camuffare la pochezza di idee.
E, sinceramente, ci risulta piuttosto difficile immaginare i due indimenticabili protagonisti de “La segretaria quasi privata” (1957) coinvolti in circa 109 minuti di visione che non risparmiano neppure qualche punta di volgarità, mentre, proprio come i due citati lavori di Zwick e Reitman, cercano di ricordare in maniera piuttosto banale che il sesso senza amore fa tutt’altro che bene… ma, dopo oltre un secolo di celluloide e tre lungometraggi quasi identici visti nel corso di nove mesi circa, lo spettatore dovrebbe averlo capito.
La frase:
"Quanto vorrei che la mia vita fosse un film certe volte".
a cura di Francesco Lomuscio
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