Agata e la tempesta
Agata (Licia Maglietta) ha una libreria, una figlia grande che studia in Spagna, una dipendente amica, uno spasimante più giovane ed un fratello più piccolo architetto. Gustavo (Emilio Solfrizzi) ha un figlio sensibile, una moglie psicologa televisiva, un lavoro che lo porta a girare ed una sorella più grande con la quale può confrontarsi. Arriva nella loro vita Romeo, rappresentante di abbigliamento, con una moglie in carrozzella ed una mamma moribonda. Scopre sul letto di morte materno di avere un fratello, venduto da piccolo per trecentocinquantamila lire, ed ora chissà dove cresciuto. È Gustavo il suo consanguineo; ed Agata che non è più sua sorella, invece di perdere un fratello si ritrova improvvisamente con due, in una famiglia che piano piano si allarga. La serafica protagonista del film si innamora di un giovane sposato che le dichiara il suo amore un pò a parole sue, un pò attraverso le frasi dei romanzi che legge; che compra da lei; che lei gli consiglia; sul quale lo interroga per capire se li ha letti veramente.
Le storie si intrecciano come nei libri, si confondono, si accavallano per fondersi in un unico grande racconto. Agata nei momenti di maggior tensione emotiva si scopre grande conduttrice, il suo passaggio nelle vite degli altri è metaforicamente scatenante, e fisicamente elettrico. Le lampadine continuano a fulminarsi; scoprendo il suo spasimante in tenere effusioni con una giovane biondina riesce a far saltare un semaforo che a catena dà il là ad un incidente, un ferito, una macchina ribaltata e fari spenti nella notte.
È possibile assecondare la scossa e cambiare vita, fluire in una nuova famiglia, messa insieme da un progetto nel quale ognuno può infilarci un pezzetto del suo sogno senza rinunciare al proprio cassetto. Si parte da quello di Romeo. Un vivaio di trote, con una balera, una libreria, uno spazio per esibirsi e chi più ne ha più ne metta. Gustavo, che ha lasciato la professione di architetto in attesa di capire quanto sia la sua e quanto sia stata indotta dal padre ora scoperto adottivo, torna a progettare torri nella campagna romagnola assieme al fratello ritrovato e trova il vero padre, che lo aveva abbandonato per seguire un circo moldavo nel quale lui tirava i coltelli. Tutto scorre e si compatta talmente che, il progetto e l'affetto dei partecipanti, supera le difficoltà emotive di una morte e della perdita improvvisa di colui che li spingeva a credere in ciò che costruivano, negli affetti che nascevano e nell'amore tutto, anche libertino, anche traditore, anche banale.
Nell'incontro con un mondo diverso dal proprio, ognuno mette di sé ciò che conosce meglio, propone ciò che pensa possa far bene, costruisce ciò che può contenere entrambi.
Il regista Soldini, al suo sesto film, affronta la commedia con una leggerezza invidiabile. Costruisce un mondo colorato, staccato dalla quotidianità, ma mai alieno alla nostra penisola. Sceglie personaggi che hanno viaggiato, letto, scritto o disegnato, e non si chiude nella provincia italiana, ma apre la nostra pianura alle contaminazioni, all'incrocio delle culture, delle arti, dei dialetti, delle famiglie e delle letterature.
Gli attori sono tutti misurati, sinceri, mai ammiccanti o alla ricerca di un'inquadratura che li metta in bella luce. La loro recitazione non è mai stereotipata; tutto fluisce con una grande leggerezza, anche quando i temi affrontati potrebbero sfociare in riflessioni gravi, retoriche o ridondanti.
Il film scorre lineare verso la fine, lasciandoci la sensazione di un cerchio che, in quanto chiuso, è pronto a ripetersi e tirarsi fuori dal tempo. Il velodromo dove si segue un ciclista che gira, una modella che sfila in tondo, le tombe di un cimitero circolare sono tutti presagi che ci fanno sperare nella quadratura dei cerchi dei personaggi, senza troppa prevedibilità e lontani assai dalla tempesta di banalità che ottunde il nostro piccolo schermo e gli esperti che lo occupano sempre più a loro tornaconto terapeutico.
Una pera di levità propizia per un volo un pò più alto.

Andrea Monti

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