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12 anni schiavo











La straordinaria storia vera di Solomon Northup.
Per il cineasta inglese classe 1969 Steve McQueen, interessato ad affrontare sullo schermo il tema dello schiavismo americano attraverso una inedita chiave dal punto di vista di un uomo che aveva conosciuto sia il bene della libertà sia l’ingiustizia della schiavitù, non poteva essere altro che l’autobiografia del citato musicista e artigiano di Saratoga Springs a rappresentare la fonte letteraria da cui partire al fine di costruire il suo terzo lungometraggio, a cinque anni da “Hunger” (2008) e a due da “Shame” (2011).
Autobiografia intitolata “12 years a slave” e che, divenuta subito un best seller dopo essere stata pubblicata nel 1853, si strutturò sui dodici anni trascorsi in diverse piantagioni della Louisiana da Northup, qui magistralmente incarnato da Chiwetel Ejiofor, il quale, nato libero nel nord dello Stato di New York, finisce rapito e venduto come schiavo, trovandosi tutti i giorni a misurarsi sia con la più feroce crudeltà che con gesti di inaspettata gentilezza, sforzandosi di sopravvivere senza perdere la sua dignità.
Quindi, se tramite la pellicola precedente si era proposto di raccontare un individuo totalmente libero del mondo occidentale che faceva del proprio corpo la personale prigione, in questo caso il regista sembra riavvicinarsi – in un certo senso – alle tematiche carcerarie del suo esordio, ponendo anche l’attore feticcio Michael Fassbender nei panni di uno dei proprietari terrieri.
Come pure il Benedict Cumberbatch di “Into darkness-Star trek” (2013), all’interno di un cast in stato di grazia che, oltre al mai disprezzabile Paul Giamatti nel ruolo del mercante di schiavi, include Brad Pitt – anche produttore dell’operazione – in quello del carpentiere Samuel Bass; man mano che il lodevolissimo lavoro svolto su scenografie e costumi giova non poco all’ottima ricostruzione storica e viene ricordato che non c’è niente di giusto né virtuoso nella schiavitù.
Nel corso di oltre due ore e dieci di visione (non poche, dunque) coinvolgenti e tutt’altro che noiose che, pur al servizio della prova di McQueen maggiormente legata alle convenzioni hollywoodiane, riconfermano il loro autore tra i più dotati esponenti della Settima arte d’inizio XXI secolo insieme al danese Nicolas Winding Refn... complici, oltretutto, momenti da antologia come quello sofferto e quasi horror della tentata impiccagione o il crudissimo pianosequenza delle frustate, capaci di colpire nel cuore e nell’anima anche lo spettatore pronto a tutto.

La frase:
"Tu sei di mia proprietà, sei mio, hai capito Platt?".

a cura di Francesco Lomuscio

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