Vol spécial
La legge del più forte vige pure in democrazia. Lo sostengono anche le persone che subiscono sulla propria pelle l'arbitraria decisione dei governi di diverse nazioni di stabilire una perseguibile condizione di clandestinità. Per la prima volta in Europa, una troupe cinematografica è potuta entrare in una struttura di detenzione amministrativa, quella di Frambois, a Ginevra, uno dei 28 centri di espulsione per “sans papiers” in Svizzera, dove è rimasta per 9 mesi.
Qui è prevista una reclusione, senza processo e fino a 24 mesi, perfino per chi è residente nel Paese da anni, lavora regolarmente, paga le tasse e contribuisce al piano pensionistico, ha l'assicurazione sulla salute, una casa, si è formato una famiglia e manda i figli a scuola.
Esemplarmente coprodotto da alcune istituzioni di cultura e informazione elvetiche (tra i diversi riconoscimenti ottenuti, spicca il premio del cinema svizzero come miglior documentario del 2012), il regista Fernand Melgar ha liberamente filmato la vita quotidiana del personale del centro ma soprattutto degli imprigionati, quasi tutti africani, cui vengono lasciate 3 possibilità: il rilascio, una partenza da liberi oppure un viaggio di ritorno, sotto scorta e blindato, ai luoghi di origine. Il "Vol spècial", appunto. Da una parte loro, che dentro fanno lavori di artigianato o di produzione seriale (qualcuno non vuole nemmeno essere retribuito, per ripagare così il cibo ricevuto) e nel tempo libero praticano sport e rap di protesta. C'è la rabbia, un rassegnato sconforto, le lacrime di disperazione, di dispiacere nel vedere altri portati via o di gioia quando si torna fuori, il dilemma sul ricevere la visita dei figli piccoli. Dall'altra i carcerieri, che ci mettono più umanità possibile nei rapporti e si rattristano al momento dei saluti. Ma uno degli "ospiti", legato troppo stretto per l'imbarco sull'aereo, muore (l'opera è dedicata al suo ricordo) e diventa vittima sacrificale che a livello di opinione pubblica fa esplodere un'enorme, malcelata contraddizione, già evidente nei rispettivi punti di vista: "preferisco chiamarli residenti piuttosto che detenuti", sostengono con benevola ipocrisia gli uni, "per loro siamo solo oggetti" gli altri.
a cura di Federico Raponi
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