Vietato sognare
Musica tesa. Brace di sigaretta, primo piano d’occhi, un elicottero militare volteggiante: le immagini iniziali di "Vietato sognare" ("forbidden childhood forbidden dreams") portano subito in guerra.

Girato insieme a "Madri" (premiato col David di Donatello), questo documentario ne costituisce la prosecuzione nell’ascolto dei degni figli ideali, i "combatants for peace", ONG di ex soldati ebrei e miliziani palestinesi che insieme cercano una soluzione al conflitto. Dure storie luttuose e percorsi ardui e sofferti di chi è cresciuto in ambiente militare o in una colonia, chi nei territori occupati o in un campo profughi subendo soprusi fin da piccolo.

Utilizzando anche filmati d’archivio a partire dalla prima Intifada, la regista Barbara Cupisti innanzitutto riesce a far parlare del dramma rimosso da entrambi i fronti (da una parte tenuto lontano, mentre dall’altra "impari molto presto che il modo migliore di affrontare i problemi è non affrontarli affatto"), comunque determinati a non cedere la terra gli uni agli altri. Quando a parlare sono le armi, la ragione lascia il posto alle mostruosità, per cui i bambini vengono visti "come obiettivi, nemici o figli di nemici", fino ai 16 anni sono gli unici a poter visitare i detenuti (dopo accurata perquisizione), non temono più i carri armati: ecco l’infanzia negata del titolo originale. E l’autrice – secondo un metodo logico, obiettivo e dritto ai nodi cruciali - arriva a scene di assurdi corti circuiti, come un gruppo di miliziani incappucciati che scrive con lo spray su un muro "il programma di pace palestinese è il nostro obiettivo" o, soprattutto, militari dello Tzahal impegnati a scortare piccoli palestinesi che nel tragitto fino a scuola rischiano di venir aggrediti dai coloni. Questo avviene ad Hebron, e Cupisti fa capire quanto sia simbolico luogo cardine, un focolaio d’odio con 800-1000 coloni, protetti da un soldato a testa, tra 166mila palestinesi. Cionostante, c’è chi trova alleati negli ex avversari, ossessionato da sogni di pace che "non sono quelli che vediamo dormendo, ma quelli che non ci fanno dormire".



La frase: ""Ho perso mia sorella in un attentato suicida. Tante “buone persone” mi hanno proposto di vendicarmi. Non capivo come potrei sentirmi meglio semplicemente uccidendo qualcuno. Ho pensato che fosse un prezzo estremamente basso da mettere sulla vita di qualcuno, quello di sostituirla con un altro corpo. Quante persone dovrei uccidere per sentirmi meglio? Uccidere qualcuno la farà tornare in vita? Non esiste vendetta. Questa vendetta chi dovrebbe proteggere, e come potrebbe prevenire ulteriori attacchi? Ho deciso che volevo uscire da questo gioco"".

Federico Raponi

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