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Vietato morire











Un’operazione che nasce dalla necessità di raccontare su schermo uno stato di cose che non possono fare a meno di interessare i ragazzi appartenenti alla stessa generazione del regista Teo Takahashi, romano classe 1988 qui al suo primo lungometraggio.
Un’operazione che, concepita con soli seimila euro di budget, si costruisce su quattro storie destinate a incrociarsi all’interno della comunità di recupero per la tossicodipendenza di Villa Maraini, tirando in ballo un manipolo di personaggi impegnati ad affrontare l’insormontabile muro dell’abbandono sociale.
Personaggi che spaziano da Patrick Ramhalho a Mitia Di Leonardo e sulle cui tragedie personali vegliano gli operatori sociali, spesso ex tossicodipendenti, sullo sfondo di una Roma scarna che fa della zona della stazione Termini una delle sue scenografie principali.
Del resto, tra richieste di metadone e consapevolezza di alleviare il dolore sulla strada di un remoto e spesso inconquistabile futuro di redenzione, è non poco squallore a emergere dalle tristi situazioni inscenate nel corso della quasi ora di visione, della quale l’autore dichiara: "Spero di essere riuscito a far trapelare la celata bellezza che si trova dietro ogni esistenza, anche in quelle più difficili e drammatiche; spero, con tutto me stesso, di essere riuscito a donare, a chi ci onora nello spendere un’ora del proprio tempo, tutte quelle emozioni che io stesso ho provato; odiando e amando, piangendo e ridendo".
Però, sebbene il finale aperto di questa versione breve (quella definitiva è di settanta minuti, con un personaggio femminile in più) non possa fare a meno di spingere alla riflessione e l’insieme, nel complesso, non risulti disprezzabile, è impossibile non notare che la recitazione tenda ad apparire non sempre convincente, man mano che verità e finzione si trovano a essere mescolate ripetutamente.
Inutile negare, quindi, che sull’argomento tossicodipendenza, al cinema, si è visto sicuramente di meglio; sebbene Paul Morrisey, collaboratore storico di Andy Warhol, pare abbia giudicato così l’esordio di Takahashi: "Un film straordinario... e un superbo documentario".

La frase:
"Non lo so, io penso alla morte sempre come una via di sicurezza generale, una via di fuga".

a cura di Francesco Lomuscio

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