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Uno, anzi due











Maurizio (Maurizio Battista) è in piedi, sul parapetto di Ponte Milvio, che fissa il Tevere.
Interrogato da alcuni passanti, preoccupati che possa commettere un gesto sconsiderato, l'uomo inizia a raccontare la storia di come, da onesto proprietario di un bar del centro, una serie di sfortunatissimi eventi lo abbiano condotto fino a quel ponte.
Tutto comincia con la morte del padre (Ninetto Davoli) sul letto di una escort e dalla tragicomica scoperta che la casa di cui si era sempre considerato proprietario era in realtà in affitto (non pagato da mesi) e che la sola eredità lasciata dall'irresponsabile genitore è composta una montagna di debiti.
Maurizio è quindi prima costretto a vendere il bar a un suo dipendente cinese e poi, nello strenuo tentativo di nascondere il proprio fallimento alla famiglia, a mettere in piedi una catena di bugie sempre più difficili da sostenere.
Fino al giorno in cui il figlio (Emanuele Propizio) gli comunica l'intenzione di sposarsi e l'organizzazione di un matrimonio troppo al di sopra delle loro possibilità fa in modo che tutti i nodi vengano al pettine.
In effetti mancava giusto Maurizio Battista all'appello dei comici televisivi passati al cinema.
Se si esclude, infatti, una partecipazione a L'ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi (era lo zio di Elio Germano) il comico romano era tra i pochi a non aver ancora giocato la carta del lungometraggio. E il risultato, va detto, è leggermente al di sopra della bassissima media a cui troppi suoi colleghi ci hanno abituato.
Innanzitutto perché Battista, evidentemente consapevole dei propri limiti, sceglie di non firmare il film anche come regista affidandosi all'esordiente Francesco Pavolini, per limitarsi invece al ruolo, a lui più consono, di co-sceneggiatore.
E poi perché si intuisce il tentativo di costruire una storia, magari anche banale, che provi ad andare oltre la sterile riproposizione su grande schermo di una serie di sketch che se in TV o in teatro trovano la loro ragion d'essere nell'indubbia vis comica di Battista, una volta trasposti al cinema hanno assoluto bisogno di una ben più solida struttura a sorreggerli.
E Uno, anzi due questa struttura ce l'ha.
Magari non è nulla di rivoluzionario in termini narrativi, ma la buona volontà c'è e si vede.
L'intento degli autori, è chiaro fin da subito, è quello di costruire una commedia semplice, antica prima ancora che classica, che riporti alla mente l'epoca d'oro di un artigianato (quello dei Mario Mattoli e dei Camillo Mastrocinque per intenderci) che aveva nella ricerca della risata e della leggerezza il suo unico scopo.
Lo si evince da una storia che, una volta epurata dai chiari riferimenti alla crisi economica, potrebbe essere stata scritta verso la metà degli anni cinquanta per Totò o Aldo Fabrizi e nella scelta di Battista di contornarsi di uno stuolo dei più validi caratteristi ancora su piazza.
Non solo Paola Tiziana Cruciani, perfetta nel ruolo della moglie devota ma vero ago della bilancia nelle dinamiche di coppia, e Ninetto Davoli, ma anche Rocco Barbaro, un mefistofelico Ernesto Mahieux e altri volti meno noti ma riconoscibilissimi (uno su tutti, Stefano Ambrogi, "er Cozzaro Nero" de La mandrakata) e che rendono Uno, anzi due un oggetto familiare quasi da subito.
Tutto ciò per dire dei pregi di un film che, senza ambire all'analisi sociologica un tanto al chilo di Checco Zalone, vince già solo nell'auto-attribuirsi la sua giusta collocazione.
Poi, è chiaro, difetti ce ne sono ma, trattandosi di un prodotto dichiaratamente medio, ci mancherebbe altro.
Maurizio Battista, ad esempio, non è un attore con un percorso cinematografico alle spalle e questo è evidente nella sua limitata gamma espressiva e nell'impressione che, a volte, reciti le sue battute (va detto, non tutte di livello) rivolgendosi a un pubblico immaginario più che ai suoi interlocutori in scena.
Inoltre la sceneggiatura, abile nel procedere per accumulo progressivo di misunderstanding dall'effetto comico garantito (la scena in cui Battista e la moglie vanno in un ristorante di lusso, in questo senso, è da antologia) non lo è altrettanto nel chiudere la storia facendo in modo che tutti i conti tornino e tende a "buttarla un po' in caciara" sul finale.
Ma sono peccatucci tutto sommato veniali, che si perdonano facilmente a un film che, non ponendosi obiettivi troppo alti, riesce nell'intento di divertire in maniera garbata e mai volgare, per una durata finalmente umana - ché superare i novanta minuti, qualora non ce ne sia un effettivo bisogno strutturale, è un atto abbastanza fine a se stesso - senza per forza chiedere allo spettatore di spegnere il cervello.

La frase:
"Tra un funerale e un matrimonio non c'è una gran differenza: c'è sempre un morto di mezzo".

a cura di Fabio Giusti

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