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Un monde presque paisible - Un mondo quasi sereno
Michel Deville ("La lettrice") presenta l'ultimo film in concorso a Venezia: "Un Monde Presque Paisible" (che probabilmente uscirà nelle sale italiane con il titolo di "Un Mondo Quasi Sereno"). Più che un film una sorta di collezione fotografica della vita di un gruppo di Ebrei, salvatisi dalla deportazione nazista, nella Parigi del '46. La solidarietà per il dramma vissuto è il collante che unisce tutti nella piccolla sartoria di Albert (Simon Abkarian / "The truth about Charlie") e sua moglie Léa (Zabou Breitman / "La Crisi!"). Che ci sia o meno lavoro non è importante, l'importante è poter garantire a tutti il calore umano necessario per vivere: al solitario Charles (Denis Podalydes / "I miserabili" in TV) che attende con immutata pazienza il ritorno della sua famiglia dai "campi", alla giovane coppia Léon (Vincent Elbaz / "Rue des plaisirs") e Jacqueline (Lubna Azbal), simbolo della vita che riprende a scorrere con i loro figli ed i loro sogni, alla disperata Andrée (Julie Gayet / "Film blu"), alla perenne ricerca di un'anima gemella e via via tutti gli altri.
Non c'è una storia, non c'è un finale (fuorché la certezza che la vita ha ripreso a scorrere). Tra aneddoti allegri, ricordi da seppellire, favole, baci ed amori perduti, si compone il puzzle di questo dopoguerra. Alla fine il sole illumina una colonia di ragazzi in festa che hanno ricominciato a giocare e a ridere.
Tratto dal libro di Robert Bober "Che c'è di nuovo sulla guerra?" (edito nel '93), si basa sulle esperienze realmente vissute da chi portava cucita sul petto una stella gialla che lo ghettizzava ai margini della società (nel migliore dei casi). Purtroppo nonostante l'intento lodevole di ricordarci che non è tutto finito il giorno dell'armistizio, la mancanza di nerbo nel film, lo relega quasi a livello di un'opera documentaristica.
Belle scenografie che quasi ci fanno sentire l'odore ed il sapore della sartoria, grandi attori che catturano l'essenza dei loro personaggi, ma totale assenza di ritmo cinematografico e soprattutto di "script". Impossibile non sentire il senso di incompiutezza dell'opera e non porsi mille domande sulle storie, forse allegoriche per un cultura "yiddish", che costellano la narrazione ma che sembrano una sorta di isole scollegate tra loro.
Nel complesso un affresco corale puramente estetico.
La frase: "Meglio un ebreo senza barba che una barba senza ebreo."
Indicazioni: Solo per chi vuole ricordare.
Valerio Salvi
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