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A Screaming Man
Il cinema del Ciad è pressoché un cinema invisibile. Giusto “Darratt” nel 2006, grazie al premio della giuria ricevuto al Festival di Venezia, riuscì ad accendere una piccola luce cinematografica su questo povero paese africano. Da quando in Sudan la situazione del Darfur è diventata una guerra civile capace di far emigrare centinaia di migliaia di persone, nel vicino Ciad l’equilibrio politico sociale è stato rotto. I profughi hanno loro malgrado creato una serie di sentimenti e di migrazioni interne che hanno portato all’ingovernabilità. Gruppi di ribelli sono continuamente in guerra con l’esercito di stato. I giovani vengono richiami al servizio militare e una generazione rischia di perdersi.
L’ “uomo che piange” del film presentato al concorso di Cannes 2010 e di cui vi parliamo ora, è un vecchio campione di nuoto internazionale. Da anni lavora in un villaggio vacanze preoccupandosi dell’ordine e della pulizia della sua amata piscina. “E’ tutta la sua vita” dice a un certo punto del film. E infatti, nonostante ami il figlio adolescente, impiegato pure lui all’interno del centro, quando scopre che prossimamente proprio il sangue del suo sangue gli prenderà il posto (mandandolo all’apertura del cancello), la sofferenza è grande. Così intensa da fargli commettere un’azione che non si perdonerà più per il resto della sua vita.
Il regista Mahamat-Saleh Haroun parte da una storia piccola per farci sentire l’eco e il dramma della guerra civile del suo paese. Nonostante lui sia emigrato a Parigi dall’inizio degli anni ’80, e da lì ormai organizza e progetta i suoi film, il suo cuore è rimasto in Africa: ogni sua pellicola è ambientata nel continente nero, parla di uomini e donne sue connazionali, racconta il suo Paese, le sue contraddizioni, le sue ambizioni tranciate sul nascere. Peccato che per quanto l’obiettivo sia nobile, così come in “Darratt”, il ritmo della narrazione sia pressoché nullo. Si rimarcano aspetti e sentimenti dei vari personaggi utilizzando solo l’espediente del silenzio. Né particolari tagli o movimenti delle immagini, né la costruzione di azioni emblematiche, né il ricorso ai dialoghi finiscono con il sembrare modus operandi utilizzabili senza sentirsi in colpa. Scelta d’autore legittima, che però rischia di narcotizzare anche lo spettatore più generoso. Va bene l’assenza di visibilità a livello mediatico del Ciad, va bene i vincoli produttivi imposti dal piccolo budget, ma gli ostacoli non ci possono obbligare a dire che si tratta di un bel film.
La frase: "Sono stato io a mandarlo!".
Andrea D'Addio
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