Tutti i numeri del sesso
Fortunatamente, il nome del regista Daniel Waters non è legato esclusivamente a “Maial campers-Porcelloni al campeggio” (2001), suo mediocre esordio dietro la macchina da presa, ma anche e soprattutto agli script di diversi, riusciti lungometraggi, tra cui “Batman-Il ritorno” (1992) di Tim Burton e “Schegge di follia” (1989) di Michael Lehmann.
Non a caso, sembra in un certo senso di ritrovare proprio la vena grottesca del film di Lehmann in questa sua opera seconda, la quale vede Simon Baker (“La terra dei morti viventi”) perfettamente calato nei panni di Roderick Blank, moderno manager di successo la cui esistenza viene sconvolta quando riceve una misteriosa mail che non solo gli elenca le donne sedotte in passato, ma anche tutte quelle che finiranno nel suo letto in futuro.
Una lista di ben 101 nomi femminili che, culminante con Death Nell, femme fatale dai toni quasi bergmaniani cui concede anima e corpo una sensuale Winona Ryder (comprendente nel curriculum artistico proprio “Schegge di follia”), finisce per trascinare il rubacuori protagonista in un’autentica odissea psicosessuale, le cui fattezze sembrano quasi porsi a metà strada tra il surrealismo sentimentale del Michel Gondry di “Se mi lasci ti cancello” (2004) e le vicende di amore e sesso al maschile raccontate dal sottovalutato Michael Davis in “100 ragazze” (2000) e “Girl fever” (2002).
Perché, tra linguaggio spesso irriverente e non disprezzabili spruzzate di humour nero, è proprio questo assurdo mix di realtà e fantasia a permettere al film di Waters (ovviamente autore anche della sceneggiatura) di apparire originale e prendere le distanze dall’infinità di commedie romantiche che, concepite con carta-carbone alla mano, affollano annualmente il piccolo e grande schermo.
E, grazie a situazioni e battute divertenti distribuite in maniera sapiente nel corso della narrazione, non mancano certo le occasioni per sprofondare in sane risate; fino al termine di circa 102 minuti di visione che, resi godibili dal fondamentale apporto del montaggio di Trudy Ship (“Il rapporto Pelican”), così frammentato da valorizzare ulteriormente una regia nella media spesso tendente all'eccessiva concessione alla verbosità (aspetto tipico di chi si occupa di script), ci portano a riflettere, tra l'altro, sul fatto che nella vita, a volte, quelle che sembrano risposte sono soltanto domande travestite.

La frase: "Scusate se credo ancora che l’amore sia qualcosa di più di un’umida fusione di genitali".

Francesco Lomuscio

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