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In Trance











Apre immediatamente all’insegna del movimento la vicenda dell’esperto di pittura e curatore di una casa d’aste Simon alias James McAvoy, il quale, unitosi a una banda di ladri per trafugare una tela di Goya valutata milioni di dollari, durante il furto riceve una botta in testa per poi non ricordare più dove ha nascosto il bottino una volta risvegliatosi.
Il giusto pretesto per far sì che, rivelatesi inutili anche le minacce di torture fisiche attuate sul giovane al fine di ottenere la verità, il capo della gang Franck, con le fattezze del mai disprezzabile Vincent Cassel, arrivi a ricorrere all’ipnoterapista Elizabeth, interpretata dalla Rosario Dawson di "Sin city" (2005) e incaricata di esaminare i recessi più intimi della sua psiche.
Il giusto pretesto per offrire all’inglese classe 1956 Danny Boyle – conquistatosi il premio Oscar grazie a "The millionaire" (2008) – l’occasione di adattare a un contesto moderno i temi classici dei noir da schermo, dall’incertezza morale agli istinti più selvaggi che si nascondono in ogni essere umano, passando per la tensione sessuale ed il tradimento.
Perché se la posta in gioco si fa più pesante man mano che la donna s’impegna a scavare nell’inconscio del protagonista, i confini tra desideri, realtà e suggestione diventano sempre più indefiniti fino a sparire del tutto nel corso di quello che, strada facendo, non assume altro che i connotati di un tuffo nelle tenebre che caratterizzano i peggiori impulsi del comportamento umano.
Un viaggio alla scoperta del fluido e ingannevole mondo del subconscio che, non privo di macabre visioni e spargimenti di liquido rosso, si basa non poco sulla prova sfoderata dagli attori (con una Dawson che regala anche il proprio nudo integrale agli spettatori), tutti calati nei panni di personaggi ambivalenti e, proprio per questo, funzionali a un racconto su celluloide che individua nel continuo ribaltamento di carte uno dei suoi principali ingredienti.
Un racconto su celluloide che l’autore di "Trainspotting" (1996) e "28 giorni dopo" (2002) gestisce senza rinunciare alla consueta cura visiva che richiama, a tratti, l’estetica dei videoclip, con l’azione e gli effetti pirotecnici che svolgono nella giusta maniera il loro dovere.
Anche se il discreto thriller che ne viene fuori, in fin dei conti, non sembra limitarsi altro che a camuffare un plot piuttosto semplice dietro un intreccio apparentemente complicato, ma soltanto ingarbugliato, un po’ come accadde con "Inception" (2010) di Christopher Nolan.

La frase:
"Nessun opera d’arte vale una vita umana".

a cura di Francesco Lomuscio

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