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Tokyo Godfathers
Quando ormai si comincia a pensare che i cartoni animati abbiano trovato nella formula 3d la loro miglior collocazione, ecco che ne arriva uno nel "vecchio" formato bidimensionale capace di scombussolarti qualsiasi catalogazione e pregiudizio. "Tokyo Godfathers", del maestro dell'anime giapponese Satoshi Kon ("Perfect blue", "Millennium actress"), è infatti, una pellicola a tutto tondo che non teme i paragoni con gli analoghi prodotti statunitensi (Gli incredibili, Shrek) per originalità e divertimento.
Liberamente ispirato a "In nome di Dio" (Three Godfathers), western "sui generis" di John Ford, la vicenda ha per protagonisti tre strambi e simpatici senzatetto. Gin è il classico burbero dal cuore tenero, Han è un uomo "aspirante donna" gentile e disponibile mentre Miyuki è una ragazza lunatica, scappata misteriosamente da casa.
E' Natale e proprio come una famiglia normale, i tre si ritrovano per scambiarsi i regali, o meglio, per "cercarli", finché tra i mucchi della spazzatura non trovano una neonata.
Chi l'ha abbandonata? Perché? Che fare adesso? Portarla alla polizia o tenerla con se? Dopotutto sembra proprio un dono dal cielo, lasciarlo in balia delle autorità in questi gironi festivi, sarebbe più un azzardo che altro... Nel tentativo di rimandare il più possibile l'addio con il bebè, i nostri protagonisti cominciano così ad investigare sull'abbandono. Tutto quello che hanno è un biglietto da visita e qualche fotografia trovati accanto alla piccola, nel frattempo chiamata "Kiyoko". La ricerca della verità porterà ognuno dei personaggi a rivelare agli altri compagni d'avventura anche il proprio passato, fino ad allora mestamente taciuto, per farne l'inizio di una nuova vita...
Una commedia, un noir, una critica sociale mascherata da dramma; se c'è qualcosa in "Tokyo Godfathers" che emerge più di ogni altra fastidiosa classificazione, sono le innumerevoli trovate genialoidi con cui gli autori arricchiscono la narrazione. Lo stile surreale e grottesco con cui si contraddistinguono gli anime, scelgono di rivisitare per contenuti il cinema statunitense degli anni 30 e 40. E così per la neonata, vista dai tre come un simbolo di rinascita morale, viene inizialmente suggerito il nome di John Doe (da "Arriva John Doe" di Frank Capra), mentre, strizzando l'occhio a Charlie Chaplin, i protagonisti, da emarginati e vittime della società attuale, si ergono a paladini morali della stessa in un viaggio che li porterà anche ad assistere ad un bel matrimonio mafioso (e qui sarà impossibile non pensare a Coppola). Tante citazioni mai fini a se stesse, ma che al contrario collaborano a rivisitare i concetti di famiglia e di relazioni personali in genere, valori che non bisognerebbe mai trascurare, visto che la vera emarginazione dell'uomo avviene quando a mancare sono gli affetti, e non i soldi o altro.
La frase: "Neanche il peggiore dei padri abbandona suo figlio."
Indicazioni: "Per tutti: genitori, figli, nonni, cinefili e non".
Andrea D'Addio
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