The Wolf of Wall Street
Ascesa, declino e caduta di Jordan Belfort (Leonardo di Caprio), broker newyorchese degli anni '90 capace a 26 anni di cominciare a tirare su milioni di dollari con il suo giro di affari, sempre meno legali. Potere, soldi, droga, sesso. Riuscirà a perderli tutti.
The Wolf of Wall Street, tratto dalla vera storia di Jordan Belfort che lui stesso ha raccontato in un libro, è la terra degli eccessi.
In ogni campo. Soldi, come se piovesse, milioni su milioni, così tanti da poterli tirare a canestro nel cestino. Donne, le mogli non bastano mai e qui non si tratta di amanti, ma di sesso durante una pesante giornata di lavoro, consumato con decine di prostitute. Droga, in ogni momento, a qualunque costo e per qualsiasi situazione; tanto da arrivare a chiedersi: "Com'è essere sobri?" È un eccesso quantitativo e qualitativo, nell'immagine così nel linguaggio. Ci vuole una grande potenza visiva, che Scorsese sa ancora usare alla perfezione, consapevole che se porti l'eccesso all'estremo, con il cinema puoi addirittura superare la vita reale. E non ha bisogno del sangue che scorre per rendere cruda un'immagine: bastano tre parole e un’inquadratura contestuale.
The Wolf, ovvero "il lupo". Ogni lupo che si rispetti deve vivere in branco e Belfort se ne è costruito uno fatto di amichetti del quartiere che diventano compagni di lavoro dal nulla e compagni di baccanali come fosse il mercato rionale del sesso. E non si è troppo lontani dal gangster-movie alla Scorsese, solo che mancano i gangster propriamente detti. Qui siamo nel mondo della finanza, non scorre il sangue. Scorrono i soldi, la droga e talvolta le manette. Ma New York City, il branco, gli amici di quartiere, una sorta di reclutamento, le descrizioni in prima persona dei compagni, i piccoli vizietti che ciascuno possiede, l'atmosfera animalesca che talvolta si scatena, lo pongono vicino alla costruzione delle storie alla quale Scorsese ci ha abituato da anni. A questo proposito, la sceneggiatura, curata da Terrence Winter (Boardwalk Empire; I Soprano) è ai limiti della perfezione. Belfort racconta al passato, ogni tanto la sua "voice over" sovrasta le immagini e aggiunge qualche dettaglio, il più delle volte futile, ma che contribuisce a rendere instancabile il ritmo del film e lo spettatore mai saturo di informazioni. In una pellicola di 180 minuti può non essere banale.
Si ride molto, con la volgarità, con i dialoghi, ma anche con le situazioni visive che, qualche volta un po' eccessive, rischiano di finire nel patetico. Ma forse anche l'immagine fine a se stessa ha bisogno di essere eccessiva, così come lo è la lunghezza di alcuni dialoghi; nessuno però fa sentire il suo peso.
Menzione per il personaggio interpretato da Matthew McConaughey, presente solo nella primissima parte del film in qualità di capo di Belfort. Una sorta di maestro, quello che gli spiega che per sopravvivere in questo mondo, i soldi devi farli solo tu e non farli fare agli altri. E che per riuscirci servono, oltre ad alzare il telefono, masturbazione e cocaina.
È il miglior Scorsese degli ultimi anni, capace di entrare in competizione con i suoi capolavori anni '80/'90, anche se ne resta uno-due gradini sotto. Pur abbassando un po' il tiro nella parte finale, resta un gigantesco e sfarzoso calderone con dentro gli eccessi di una vita, un devastante girone dantesco contenente tutti i peccati. Forse il potere dell'inferno è quello di far dubitare chiunque di volerci finire dentro. Probabilmente, il regista stesso per primo.
La frase:
"Mi chiamo Jordan Belfort. L'anno in cui ho compiuto 26 anni ho guadagnato 49 milioni di dollari, il che mi ha fatto molto incazzare perché con altri 3 arrivavo a un milione a settimana".
a cura di Matteo Colibazzi
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