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The Possession











L’inarrestabile accelerazione evoluzionistica che ha accompagnato l’uomo fino all’ingresso nel nuovo millennio ha sollecitato le migliori menti nella produzione di cure e antidoti a molti mali scatenati da quello stesso processo che concorreva agli sviluppi di straordinarie rivoluzioni scientifiche e tecnologiche. Una cosa, tuttavia, non ha mai abbandonato il percorso dell’uomo negli infiniti ricorsi di eventi che ne hanno segnato la storia. L’atavico terrore dell’ignoto striscia come un demone sotto la pelle dagli albori dell’umanità, in un legame indissolubile e invisibile che nessuna delle più sofisticate ricerche riesce a recidere. Una tematica che nutre leggende e miti, instillando linfa vitale in tanta parte della cultura popolare che dalla letteratura finisce per migrare inevitabilmente sugli schermi, innervando innumerevoli racconti di quell’amalgama basilare di attrazione e repulsione che le connotano.
Gli effetti di un simile distillato non mancano di solleticare la curiosità di uno dei maestri dell’horror che ha venato di suspense tante pellicole, donando all’immaginario contemporaneo una buona dose di inquietudine e paranoia. Sam Raimi presenta The Possession, un’opera cupa che porta la firma del danese Ole Bornedal, di ritorno alla regia in America dopo il thriller Nightwatch: Il guardiano della notte. In collaborazione con la Lionsgate, la Ghost House propone un prodotto che riesce a mantenere una soglia di rispettabilità nell’adesione a schemi standardizzati di genere, muovendosi all’interno dell’indefinito panorama mainstream, forte di un impianto formale che si erge a cifra distintiva. La scenografia di Rachel O’Toole lavora alla creazione di un’atmosfera oscura e perversa emanata da elementi simbolici, capaci di trattenere quell’angoscia latente che le tinte fosche e fortemente contrastate della fotografa Dan Lausten contribuiscono ad incrementare, in un gioco di luci e ombre che pervade l’intero film. Ad una struttura densa di sottesi richiami mal si accorda, tuttavia, una narrazione che non riesce a configurarsi al di là dello stato embrionale. Il ritmo calibrato di tensioni e sospensioni risulta in alcuni casi appesantito dall’indugiare su dialoghi che vogliono colmare vuoti di sceneggiatura, con il risultato contrario di rimarcarne i contorni.
L’impegno sotteso nel confezionare una cornice degna di nota, cade inevitabilmente nell’ostentazione di una cifra estetica che evita di sfruttare appieno ogni altra risorsa offerta dalla dimensione narrativa. Le linee drammaturgiche non fanno che ripetere gli ennesimi cliché tanto cari a numerose storie di esorcismi e presenze infestanti, con l’aggravante stereotipo di una famiglia vittima delle circostanze, costretta a combattere contro un male non troppo invisibile che ne mina tragicamente il nucleo. Il percorso segnato di morte del demone Dibbuk, che rimbalza dal legno coperto di ebraiche stigmate di avvertimento al corpo ancora candido di Em, per succhiarne la linfa vitale d’innocenza e tornare alla sua dimora – in risposta ad un richiamo antico più della mitologia che ne accresce il timore reverenziale – segna un circolo simbolico che spesso si associa a dinamiche di formazione. Nel passaggio da uno stato all’altro si compie l’apologia di un gruppo di persone messe a dura prova da peripezie straordinarie che ne incrinano la stabilità per confermarne la sostanziale compattezza, finalmente ritrovata nel rafforzarsi del contesto familiare. Ispirato a fatti realmente accaduti, The Possession condensa eventi traumatici e misteriosi all’interno di un nucleo già corroso da piaghe di rottura, affidandosi ad un cast capitanato da attori confermati, tra cui Jeffrey Dean Morgan e Kyra Sedgwick, la cui prova di realismo psicologico si trova strozzata in un doppiaggio spesso scadente.
D’impatto certo l’interpretazione della giovane Natasha Calis, che riesce a concentrare tutta la forza perturbante nelle espressioni catturate da occhi di rigida angoscia. Il richiamo intercontestuale di scarsa originalità viene comunque compensato da alcune scene costruite sapientemente sull’arte dell’effetto, ma si poteva ottenere di più da chi vanta di un’eredità dalla risonante eco horrorifica.

La frase:
"Vuole l’unica cosa che ancora no ha: la sua vita".

a cura di Marta Gasparroni

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