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The King
Si chiama Elvis, ma non stiamo parlando del re del rock, nonostante il titolo del film lo possa erroneamente far pensare. Elvis Valderez, per la precisione, dimesso dalla Marina Americana, il quale, bisognoso di ritrovare le proprie radici, va' in cerca del padre, mai conosciuto, di cui gli parlò soltanto la mamma scomparsa. Ma l'uomo, David Sandow, ora pastore di una chiesa battista, non intende ammetterlo nella sua famiglia, di cui fanno parte anche la moglie Twyla ed i figli Malerie e Paul, deciso a difendere dalle ombre del passato il proprio status di uomo di fede; ed Elvis, paradossalmente, inizierà una storia d'amore proprio con l'ignota sorellastra Malerie, sedicenne, nonostante Paul cerchi di ostacolarlo, finendo per penetrare e sconvolgere il tranquillo quadretto familiare, soprattutto quando questa brama d'amore comincia a trasformarsi in violenza.
Commentato dalle musiche curiosamente elfmaniane di Max Avery Lichtenstein (Lontano dal Paradiso), il primo lungometraggio a soggetto diretto dal pluripremiato documentarista James Marsh (The Burger & the King: The life & cuisine of Elvis Presley), co-sceneggiato da quel Milo Addica che ottenne una candidatura al Premio Oscar per Monster's ball-L'ombra della vita (2001), vanta un cast di tutto rispetto, costituito da nomi del calibro di William Hurt e Laura Harring, ma, soprattutto, da giovani ed interessanti volti, come il Gael Garcìa Bernal de I diari della motocicletta (2004), il Paul Dano de La ragazza della porta accanto (2004) e la Pell James attualmente sugli schermi italiani anche con Broken flowers (2005) di Jim Jarmush.
Sebbene venga dai più definito thriller, il film si presenta con l'aspetto di un dramma volto a riflettere sul recente ascendente che la fede esercita sulla condotta umana, tanto più che stiamo vivendo nel millennio delle guerre religiose, e non esita a mettere in scena credenti e divulgatori della Parola di Dio, i quali, però, non esitano ad andare a caccia di cerbiatti. E Marsh, che, a quanto pare, è stato ispirato dalle architetture e dai paesaggi di Corpus Christi, in Texas, conduce il tutto attraverso una piatta regia, la quale raramente riesce a strappare il prodotto dalla noia, eccezion fatta per lo spiazzante, inaspettato ed amaro epilogo, anche se risulta ugualmente difficoltosa l'impresa di capire dove l'opera, dalla posizione ambigua, voglia andare a parare, soprattutto in quei pochi momenti (tra l'altro riusciti) incentrati sui disturbanti atti di violenza per mano di Elvis.
Sicuramente, si tratta soltanto dell'ennesima rappresentazione visiva dei frutti del peccato, però, a chi scrive, piace l'idea di interpretarlo come la descrizione della genesi di uno dei tanti, insospettabili serial killer alla Henry Lee Lucas che, periodicamente, provvedono ad insanguinare tristemente l'America. Non un brutto film, attenzione, ma sarebbe sicuramente stato un capolavoro in mano ad un autore come Clint Eastwood, capace di scavare in profondità nell'animo e nelle nevrosi umane.
La frase: "Chi credi di essere? Pensi che la gente venga in questa chiesa per ascoltare le tue stronzate?".
Francesco Lomuscio
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