Il padre
Il film di Fatih Akin era uno dei più attesi del Festival di Venezia. Il regista tedesco di origini turche ha un curriculum di tutto rispetto, costellato anche di grandi successi internazionali, a partire da “La sposa turca”, Orso d’Oro a Festival di Berlino nel 2004. Nel corso della sua carriera ha esplorato diversi generi, dal dramma alla commedia al romantico, con risultati sempre almeno soddisfacenti.
Con “The Cut” Akin decide di seguire le vicende di Nazaret (Tahar Rahim) dividendo il film in due parti: nella prima il protagonista armeno, nel 1915, è costretto a combattere nella guerra tra ottomani e inglesi, ritrovandosi in più di un’occasione a faccia a faccia con la morte. La seconda metà della pellicola, invece, è dedicata alla sua ricerca delle figlie, che lo condurrà dall’altro capo del mondo.
Si parte con la presentazione di una famiglia con toni da brutta favola, cercando maldestramente di rappresentare un microuniverso (idilliaco, da Mulino bianco) con pochissime pennellate, ma vengono scelte quelle più ovvie e le più consumate da oltre un secolo di storia del cinema. Di questo incipit viene mantenuto non il tono, ma l’approccio approssimativo che regnerà fino alla fine del film. In “The Cut” il protagonista deve affrontare qualsiasi pericolo, e pare che Fatih Akin e Mardik Martin, autori della sceneggiatura, fossero in preda ad una foga che li ha spinti a vomitare nel copione qualsiasi situazione gli passasse per la mente, anche la più assurde, la più forzate e la meno necessaria. Toni da favoletta si alternano a momenti di grande violenza, ma fanno fatica a convivere senza stonare. Incomprensibile, poi, è la durata esagerata (due ore e venti!) che si avverte piuttosto pesantemente e che sarebbe stata evitabilissima senza l’aggiunta di deviazioni che nulla aggiungono alla storia. È davvero un peccato, perché si sarebbe potuto realizzare un buon film con un po’ di senso dell’equilibrio in più.
Invece si è optato per un minestrone in cui si accenna a mille temi approfondendone forse uno solo. Il risultato non è affatto la noia mortale, ma un’ingenuità dilagante che a tratti fa addirittura sorridere ma che non ti aspetteresti da un autore affermato come Fatih Akin, la cui regia fa fatica a percorrere fino in fondo una direzione precisa.
Sarebbe da domandarsi cosa ha spinto Barbera, direttore del Festival, a selezionare quest’anno un numero esagerato di film mediocri all’interno del Concorso veneziano.
La frase:
"Ho visto morire tutta la mia famiglia... Dio non è misericordioso".
a cura di Luca Renucci
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