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La parte degli Angeli











Una fiaba etilica. In cui il tribolato, ingegnoso raggiungimento di uno stato "etereo" eleva da una pesante realtà ("la Parte degli angeli", in gergo tecnico, definisce quella piccola percentuale di whisky che evapora nei diversi spostamenti dalla distilleria al bicchiere), con un percorso dal dramma al sorriso. Il quale è aperto verso un futuro che, in un pulmino dal motore acceso pronto alla partenza, racchiude una compagna tenace, un figlio appena nato, la mèta di un'altra città e la promessa di un lavoro.

Ventotto lungometraggi di finzione (oltre ad un paio di episodi in film collettivi) di una coerenza politico-artistica lucida e rigorosa, su sceneggiatura del fido Paul Laverty il regista Ken Loach si muove nuovamente in una dimensione sottoproletaria da commedia - attraversata da un ruvido, rozzo, irresistibile umorismo britannico popolare - che caratterizza molte delle sue opere e lo ha fatto conoscere nel mondo (su tutti l'esempio "Riff raff"). Qui l'ambito metropolitano è caratterizzato da precarietà esistenziale, violenza clanistica ereditaria e disgregazione sociale. Come sempre, il cineasta (premio della giuria al festival di Cannes) sa combinare attori e interpreti non professionisti nel dar vita ad una rappresentazione che sembra mossa da un verace spontaneismo. E con coraggio fa leva su contraddizioni scomode e ribaltamenti dei canoni, a cominciare da un protagonista con trascorsi di cieco bullismo (la sequenza con il "flashback" di una tragica bravata e l'incontro tra lui e la vittima, accompagnati l'uno dalla fidanzata e l'altro dai genitori, scuote non poco), passando per l'alcol trasformato da strumento di dipendenza a mezzo di liberazione, per finire con un riscatto conquistato mediante un altro reato. Ed è su queste basi che Loach articola, con cosciente ottimismo, uno sviluppo di rapporti di solidarietà, spirito di gruppo e - soprattutto - generosità e riconoscenza.

La frase:
"Stavi più sicuro in galera".

a cura di Federico Raponi

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