Sunshine
Alla fonte dell'esistenza. Nelle intenzioni di Danny Boyle, Sunshine voleva essere "un viaggio psicologico. Siamo formati da particelle di stelle esplose, e il Sole è la stella da cui proviene la vita". Al regista piacciono fantascienza elegante e bellezza scientifica, perciò ha cercato da un lato la verosimiglianza in consulenze qualificate e in una preparazione tecnica che ha coinvolto tutto il cast, e dall'altro l'inventiva in una fotografia (Alwin Kuchler) con lenti anamorfiche, in esterni realizzati al computer interamente in CGI dalla Moving Picture Company, in scenografie (Mark Tildesley, designer Richard Seymour) ispirate a sottomarini nucleari, impianti di trivellazione petrolifera, missioni NASA e ricostruite in otto teatri di posa con set anche a dimensioni reali.

D'accordo che gli astronauti sono provati dalla prolungata permanenza a bordo ("in 16 mesi ti abitui a tutto e vai fuori di testa"), però sembrano tutt'altro fuorchè professionisti: si azzuffano, urlano litigando, si accusano reciprocamente, hanno dialoghi banali, si disperano terrorizzati, prendono sedativi per non suicidarsi, restano stupefatti come bambini. Rispetto poi ai canoni del genere, la claustrofobia limita l'attrattiva del vuoto cosmico, dei lenti movimenti delle astronavi, della maestosità dei corpi celesti. Boyle esaudisce il personale desiderio di visioni, ma con un roboante miscuglio squinternato che aggiunge thriller, azione, horror. Nel continuo di incidenti e scelte drastiche, sangue e sudore, ustioni e congelamenti, pelle polverizzata e frantumazione d'arti, il film si fa catastrofico e con un andamento forsennato corre verso il ridicolo, inseguito da un pazzo - preda di farneticazioni misticheggianti apocalittico-messianiche - dotato di una resistenza sovrannaturale.

La frase: "E' energetico, come farsi una doccia di luce. La luce ti avvolge, diventa parte di te".

Federico Raponi

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