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Sherlock Holmes - Gioco di ombre











Che il grandissimo Robert Downey Jr sarebbe tornato a vestire i panni del detective più famoso della letteratura, lo si era già intuito da quel provocante "Caso riaperto..." pronunciato nel 2009 al termine di "Sherlock Holmes", lungometraggio tramite cui l’ex marito di Madonna Guy Ritchie provvide a ridefinire per le generazioni d’inizio XXI secolo l’iconico personaggio creato da Sir Arthur Conan Doyle, trasformandolo in palestratissimo eroe d’azione.
Ed è il suo amico, socio e occasionale alter ego John Watson – ancora una volta incarnato da Jude Law – il primo che rivediamo in scena in questo sequel sempre diretto dall’autore di "Snatch - Lo strappo", che, già in anticipo rispetto ai titoli di testa, fa sfoggio di esplosioni e scazzottate.
Sequel che, ponendo in secondo piano Rachel McAdams, la quale torna nel ruolo di Irene Adler, coinvolge stavolta la Noomi Rapace di "Uomini che odiano le donne" in quello della misteriosa zingara Sim, destinata ad allearsi con i due protagonisti nel tentativo di fermare il tanto astuto quanto malvagio James Moriarty alias Jared Harris, il compimento del cui infausto complotto rischierebbe di cambiare per sempre il corso della storia.
Impresa che li spinge a partire da Londra per toccare la Francia, la Germania e la Svizzera, senza dimenticare Kelly Reilly di nuovo a fare da compagna di Watson; mentre a mancare non sono i consueti, grotteschi travestimenti e una buona scorta di umorismo inglese, con il quale Law e Downey Jr dimostrano di saper giocare a dovere.
Al servizio di un secondo tassello che, in fin dei conti, non risulta né meglio, né peggio del guardabile precedente, rispetto al quale, come vuole una delle tante regole hollywoodiane relative alle continuazioni, concede soltanto maggiore spazio alla spettacolarità; con una serrata sequenza ambientata sul treno e una sparatoria nel bosco infarcita di ralenti alla "Matrix" (il cui produttore, non a caso, è lo stesso Joel Silver).
Per il resto, abbiamo i soliti, non proprio incalzanti ritmi di Ritchie, che, come sempre, camuffa i suoi limiti e la pochezza di script ricorrendo a qualche virtuosismo tecnico – soprattutto di montaggio veloce – volto a rendere esteticamente accattivante l’operazione. Tanto da riuscire a far cadere gli spettatori più modaioli e meno cinematograficamente esigenti nel lussuoso inganno.
Solo loro, però.

La frase:
"Forse ha sentito parlare di me, mi chiamo Sherlock Holmes".

a cura di Francesco Lomuscio

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