Schattenwelt
22 anni, dopo un omicidio imprevisto e rocambolesco, per tutti coloro che ne furono coinvolti - tra assassini e familiari del defunto - possono anche esser passati senza sanare le ferite e i tormenti interiori. Che, anzi, sono stati tramandati a figli che non si è stati in grado di crescere. Da qui la traduzione inglese di "Shattenwelt" ("long shadows", che invece letteralmente dovrebbe essere "l’ombra del mondo") per un intreccio, fortemente simbolico e teatralizzato, che mette in stretta relazione membri della RAF - la principale formazione rivoluzionaria armata tedesca – ancora disposti ad accusarsi a vicenda del sangue innocente versato (chi è stato lungamente in galera contro chi, per il principio di premialità applicato ai collaboratori di giustizia macchiatisi dei medesimi delitti, è fuori da tempo), poliziotti inetti e privi di etica professionale, la vendicativa progenie delle vittime. "Un confronto improponibile" - così lo ha definito infatti la regista Connie Walther - possibile solo al cinema, mentre gli strascichi della mancata chiusura di una stagione di odio e di conflitto politico-sociale sono fissati nello sguardo rabbioso di un bambino.
La Germania, questo è il sunto, non ha saldato i conti con i cosiddetti "anni di piombo": la gente comune, come si vede in un paio di indicative scene, ha memoria e non perdona nonostante le lunghe pene scontate dai responsabili, ai quali è negata anche la possibilità di ricostruirsi una vita nell’anonimato.

Co-sceneggiato da Peter-Jürgen Book, ex appartenente alla RAF (come rumorosamente denunciato da un giornale scandalistico in merito ai finanziamenti elargiti alla pellicola da un ente pubblico) con 18 anni di carcere sulle spalle, e dalla stessa Walther in precedenza autrice di documentari, film televisivi e altri due lungometraggi di finzione, il film resta dolorosamente forzoso e irrisolto. E, nonostante le buone prove d’attori, se da una parte la Storia appare solo un pretesto, dall’altra manca proprio di quella dimensione universale a cui invece probabilmente aspirava nelle intenzioni.

La frase: "Per me era una guerra, e io sono sopravvissuto".

Federico Raponi

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