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Santiago
Documentario di João Moreira Salles, che urla disperatamente il bisogno di fare Cinema nella sua terra: il Brasile. Con inquadrature fisse sul maggiordomo di famiglia, per l’appunto il "Santiago" del titolo, Salles compie una ricerca personale sul Cinema e sul suo modo intimo di interpretarlo. Il film, infatti, è il risultato di una lunga gestazione durata circa dieci anni e ora, a realizzazione ultimata, la voce fuori campo del regista spiega, con fare atonico, il motivo delle sue scelte formali. L’inserimento di una scena, piuttosto che di un’altra, il motivo dietro il quale si imposta una sequenza su un’altra.
"Santiago", per intenderci, non è un film atalogabile o classificabile, a causa della sua intima e ricercata natura di riflessione sul mezzo di comunicazione usato. Ma se ci si allontana dalle concezioni classiche del documentario, e da quelle più moderne viste negli ultimi anni con i vari Moore e compagnia, il pubblico può (ri)scoprire in "Santiago" una forte identità cinematografica, che affonda le sue radici nella Storia del Cinema, nei periodi delle sperimentazioni degli anni Sessanta, o prima ancora nella Nouvelle Vague, o ancora più in origine, al cinema dei fratelli Lumière.
Si ritorna alle origini, quindi, raccontando anche il rapporto di amicizia "distaccata" di un uomo, Roteiro Santiago, e un ragazzo, João Moreira Salles.
Un’opera che va al di là dei concetti di bene e di male, di giusto e di sbagliato nel Cinema, astraendosi come farebbe un’immagine che si separa dalla testa dell’artista che l’ha concepita sulla tela.
Bello.
La frase: "Ho inserito anche questa sequenza, come mi aveva suggerito Santiago".
Diego Altobelli
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