Sangue del mio sangue
Le controindicazioni della memoria andrebbero lette con cura (o anche “mai chiedere troppo alla propria nostalgia”).
Bobbio, la cittadina emiliana che ha dato i natali a Marco Bellocchio, è la cornice di “Sangue del mio sangue”. La pellicola ha un andamento complessivamente tripartito e spazia sostanzialmente su due piani temporali: una idealizzata “età dell'inquisizione” (prima e ultima parte) in cui si seguono le vicende di Benedetta, una Gertrude “sui generis” torturata in un carcere-convento e seguita da un tale Don Federico (alla ricerca di una degna sepoltura per il fratello, compagno della religiosa) e una panoramica sulla contemporaneità (seconda parte) in cui un anziano e spettrale conte (Roberto Herlitzka) affronta il cambiamento sociale e generazionale della città che ha protetto e salvaguardato per più di tre decenni.
In sostanza il progetto ha l'aspetto finale di una lunga indagine di carattere personale che il regista conduce tra memorie dell'infanzia (l'educazione religiosa), relazioni intime con Bobbio e con la propria famiglia (nel cast ben tre “Bellocchio”) e considerazioni sull'oggi, sempre filtrate dalle dinamiche di una realtà molto piccola che, stando a quello che viene messo in bocca ad Herlitzka, è comunque “il mondo” (o perlomeno ne è paradigma).
In un cast di fedelissimi (i parenti non contano) spiccano, oltre al già citato attore torinese, Fausto Russo Alesi, Federica Fracassi, Alba Rohrwacher e Filippo Timi (nel piccolo ruolo del pazzo in cui fondamentalmente interpreta se stesso).
Le perplessità sul disegno d'insieme della pellicola non sono poche: anzitutto la discutibile sintonia tra i due percorsi narrativi tracciati, sia in termini di coerenza stilistica sia, entrando nello specifico, per quanto concerne l'efficacia dei due “passaggi” che collegano il tutto; la “parola detta”, la rete di sceneggiatura che sorregge il film, è poi abbastanza deludente e già dopo i primi dieci minuti sembra destinata a cedere (così sarà, salvo qualche attimo di respiro nel mezzo); la colonna sonora è francamente imbarazzante (e i Metallica acustici con monache e preti non si possono proprio sentire), e come se non bastasse, per finire, tutto quello che “succede” è forzato rispetto ai tempi che la storia, per come Bellocchio stesso ha deciso di presentarla, impone.
Il risultato pare favorire l'impressione che il regista abbia seguito suggestioni di carattere emotivo e facendosi prendere dalla fretta di “dire” e di “mostrare”, trascurando la cura di ogni singolo aspetto (è facile pensare che la trama prospettica sia la responsabile più indiziata per lacune di questo tipo).
E il problema è che, conseguentemente a tutto questo, l'ombra della gratuità complessiva è imponente e disturbante, rischiando di ridimensionare notevolmente le chiare pretese autoriali che stanno alla radice di “Sangue del mio sangue”: la rassegnazione nel dover prendere atto che i tempi cambiano (e con essi anche le determinazioni delle nuove generazioni rispetto alla contemporanea dispersione di valori) dovrebbe coincidere con la consapevolezza che tutto questo non può fare a meno di un lavoro raffinato di messa in discussione delle forme più atte ad interpretare questo scarto culturale.
E allo stesso modo è interessante la riflessione che viene spesa sulla prigione, sulla detenzione, sulla pausa spirituale forzata, sulla “monaca di Bobbio” murata viva nel suo potenziale sovversivo, sulle celle degli impulsi più elementari e umani, ma per come viene resa il sospetto è che il carcere se lo sia confezionato su misura.
E non vale il “melius abundare quam deficere”, perché dentro al film c'è troppo, e orientarsi stilisticamente è faticoso e poco stimolante specie quando si prende atto che comunque lo si veda, il lavoro si sblocca a fatica e resta rilegato ad un appetito un po' superficiale di nostalgia (da nostos, “ritorno”, nel vero senso del termine).
La frase:
"Il sangue non mi fa più nessun effetto, questa è la tragedia".
a cura di Riccardo Favaro
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