Romanzo criminale
A botta calda Michele Placido, insieme agli sceneggiatori Rulli e Petraglia (La meglio gioventù, Le chiavi di casa), è stato accusato di aver tentato di fare il verso a "Quei bravi ragazzi", film cult di Scorsese, sul mondo delle bande (in quel caso mafiose) e dei relativi rapporti di "fratellanza" al loro interno. Ci sentiamo di prendere le distanze da un accostamento di questo tipo. Romanzo Criminale è un film che senza l'humus culturale, politico e sociale tipicamente italiano non avrebbe avuto motivo di esistere, inserendosi, in particolare, in modo preciso e coerente in un tessuto di rapporti e in un sentire comune propriamente caratterizzante dell'ambiente romano. Tuttavia nulla toglie al respiro omnicomprensivo di un film che descrive, passando per un'umanità rischiosa, la banda della Magliana (che sparse terrore tra la seconda metà degli anni '70 e la prima degli '80), che costituisce ancor oggi un'anomalia nel panorama della criminalità organizzata del centro-nord Italia.
Il Libanese, il Freddo, il Dandi. Questi i tre protagonisti attorno ai quali si costruisce, fisicamente e scenicamente, il film. I tre episodi che li vedono per protagonisti in realtà non li concepiscono tanto come il fulcro dell'azione, ma come il motore. La scalata, la rabbia e l'amore, il disastro. Si potrebbe intitolarli così svincolandoli dai semplici nomi, perché è questo che incarnano.
Nelle sue due ore e mezza di storia serrata e mai banale, Placido mette in mezzo di tutto: amore, odio, borgata e città, freddezza e impulso, ricchezza e povertà, cinismo e affezione. Il film scaturisce e si muove sotto una continua attrazione degli opposti, in un gioco altalenante di alti e bassi che, se in alcuni momenti è estremamente funzionale e sintetico, in altri dà l'impressione di voler tirare per la giacca il film, concedendogli pause o eccessi là dove se ne farebbe volentieri a meno. Il tutto condito (come nella miglior tradizione de La meglio gioventù) di scampoli della vita della prima repubblica, alcuni contestualizzati (come i riferimenti ad una possibile implicazione della banda nella strage alla stazione di Bologna), altri più estemporanei. In questo frangente forse Placido si lascia prendere la mano da un'interpretazione dei retroscena politici che vede troppo in primo piano, e con troppo potere, la massoneria. Tanto che anche l'integerrimo commissario Scialoja (uno Stefano Accorsi che, una volta tanto, non ci è dispiaciuto) alla fine cederà alle lusinghe di un certo potere.
Si scorge qua e là una certa ricerca allegorica (basti pensare alle scene della morte del Nero, Riccardo Scamarcio, faccia a faccia con un manichino, o alla grottesca riproposizione finale dell'inseguimento sulla spiaggia che apre il film) che, centrata o meno, si disperde nel calderone di un film forse un tantino al di sopra delle proprie possibilità.
Solare e imprescindibile aspetto positivo del tutto è un magistrale Pierfrancesco Favino, attore troppo spesso dimenticato da un cinema italiano sempre in affannosa ricerca di nuovi talenti, troppo spesso dimentico del grandissimo talento di alcune grandi figure che spesso passano in sordina.
Placido, nonostante le pecche, e un fianco scoperto a letture tutto sommato tendenziose della storia recente italiana, ha il coraggio di osare, di riuscire a costruire un film che si sganci dalla provinciale realtà italiana, per andare, pur non rinnegando le proprie origini, ad esplorare linguaggi e forme che oggi, dalla produzione nostrana, generalmente vengono evitate.

La frase: "- Da che mondo è mondo i debiti li pagano tutti" "- Gli imperatori no"

Pietro Salvatori

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