Rock the Kasbah
Celine Dion, Nicki Minaj e Christina Aguilera sono tutte voci irritanti e grandi star.
Ve lo dice Richie Vance, cinquantenne manager di musica rock che, con le fattezze di Bill Murray e ormai giunto al capolinea, è protagonista di una commedia d'ambientazione bellica ispirata a fatti realmente accaduti e ideata sei anni prima, a quanto pare, dallo sceneggiatore Mitch Glazer, che già aveva avuto modo di lavorare insieme al comico americano sul set di "S.O.S. fantasmi", rivisitazione a firma di Richard Donner del sempreverde "Canto di Natale" dickensiano.
Ed è il Barry Levinson che - vincitore del premio Oscar grazie all'acclamatissimo "Rain man - L'uomo della pioggia" - introdusse elementi di leggerezza senza rifuggire gli orrori della guerra in "Good morning, Vietnam” a trovarsi al timone di regia della oltre un’ora e cinquanta di visione, in cui Vance cerca di tenere fede alla promessa di successo fatta all’aspirante artista Ronnie alias Zooey Deschanel portandola in Afghanistan per farla esibire davanti alle truppe americane.
L’Afghanistan dove, ritrovatosi solo, senza soldi e privo documenti a Kabul in seguito ad una serie di inaspettate circostanze, s’imbatte nella splendida voce di Salima, una ragazza che, incarnata dalla Leem Lubany di “Omar”, potrebbe vincere secondo lui “Afghan star”, famoso show televisivo proto-“American idol”; sebbene gli anziani del villaggio rifiutino il consenso della sua partecipazione alla trasmissione, in quanto non solo alle donne pashtun è proibito cantare, ma tale crimine pare essere addirittura punibile con la morte.
Perché, con un esilarante Bruce Willis coinvolto nei panni della guardia del corpo Bombay Brian e la Kate Hudson di “Bride wars – La mia miglior nemica” in quelli della prostituta Merci, ciò che prende progressivamente forma rientra sì nel genere dello spettacolo da schermo rilassante, ma rifiutando toni spiccatamente farseschi e cercando, al contempo, di lanciare un profondo messaggio di pace e tolleranza, di amore per la famiglia e per la musica.
Ma, curiosamente, mentre viene spiegato che nella vita esistono quattro legami sacri e ascoltiamo rivisitazioni di classici delle note del calibro di “Smoke on the water” dei Deep purple, “Wild world” di Cat Stevens e “Knockin’ on heaven’s door” di Bob Dylan, è un certo retrogusto alla Roberto Benigni a poter essere avvertito ancor prima di influenze che sarebbero potute provenire da esempi cinematografici d’oltreoceano quali “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin e “M.A.S.H.” di Robert Altman.
Però, sebbene qualche azzeccata battuta riesca nell’impresa di strappare risate allo spettatore, come anche determinati atteggiamenti sfoggiati dal citato interprete della saga action “Die hard”, le cadute nella morsa della fiacchezza non sembrano risultare assenti e, pur trovandoci dinanzi ad un’operazione senza infamia e senza lode (oltre che senza particolari guizzi), sorge spontaneo chiedersi quale sia la sua effettiva utilità... sia nella filmografia levinsoniana che, in generale, nell’ambito del filone.
La frase:
"Non hanno idea di cosa li aspetta".
a cura di Francesco Lomuscio
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