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Poltergeist











Datato 1982, l’originale, diretto dal Tobe Hooper autore di "Non aprite quella porta", è conosciuto dalle nostre parti come "Poltergeist - Demoniache presenze" e, costruito sulla classica vicenda della famiglia americana alle prese con fenomeni paranormali nella sua abitazione, ha dato origine sia ai sequel "Poltergeist 2 - L’altra dimensione" di Brian Gibson e "Poltergeist 3" di Gary Sherman, rispettivamente datati 1986 e 1988, che alla serie televisiva "Poltergeist", del 1996.
A trentatré anni dal capostipite, nato da un soggetto del produttore Steven Spielberg, Gil Kenan – regista di "Monster house" (2006) e di "Ember - Il mistero della città di luce" (2008) – ne confeziona un remake atto a riprenderne fedelmente il plot e ponendo nei ruoli dei genitori Sam Rockwell e Rosemarie DeWitt e in quelli dei figli Saxon Sharbino e i piccoli Kyle Catlett e Kennedi Clements.
Piccoli destinati ancora una volta a doversela vedere l’uno con il pupazzo raffigurante un inquietante clown, l’altra con un vero e proprio rapimento compiuto nei suoi confronti dalle misteriose presenze, dopo averle avvertite attraverso il televisore privo di segnale video; ora un moderno schermo piatto e non più un vecchio modello a tubo catodico.
Del resto, tra laptop e localizzatori gps, era lecito aspettarsi l’intervento di sofisticate apparecchiature tecnologiche assenti nella pellicola di riferimento; come pure non poteva mancare almeno una piccola influenza da parte del cinema horror orientale d’inizio XXI secolo (non a caso, produce la Ghost House Pictures dei "The grudge" made in USA).
Ma, se sequenze come quella piuttosto tesa del trapano o la rilettura del momento in cui l’albero a forma di mano penetrava nella casa non risultano disprezzabili, non si impiega molto tempo ad intuire che ci troviamo dinanzi all’ennesimo, inutile rifacimento di un cult (seppur sopravvalutato, a dire la verità); a cominciare dalla forte sensazione di dejà vu e da una eccessivamente luminosa fotografia che fa la infelice scelta di eliminare del tutto i toni dark che furono.
Perché, se la prima parte di attesa, occasionalmente interrotta da spaventi improvvisi, già rischia non poco di annoiare, la situazione non migliora certo quando scopriamo che, al posto della mitica medium Tangina incarnata dalla compianta Zelda Rubinstein, abbiamo un Jared Harris in vena di personaggio popolare televisivo provvisto di abbastanza inappropriata ironia.
E non parliamo della maniera tutt’altro che impressionante ed efficace in cui viene riproposta la scarnificazione del viso che rappresentò una delle fasi memorabili del film hooperiano; rispetto al quale, qui, in mezzo a tripudio di effetti digitali volti ad infarcire la seconda parte dell’insieme, la paura sembra essere grande assente e spesso occultata da un certo rassicurante umorismo proto-sitcom a stelle e strisce. È sufficiente citare il finale.

La frase:
"Sono arrivati".

a cura di Francesco Lomuscio

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