Photocall
Un artista sul campo, alle prese con i servizi fotografici per alcune giovani attrici del cinema italiano che vanno a comporre altrettanti siparietti. Lui vanta 15 anni in giro per il Sud America e riferimenti culturali con citazioni di nomi per la letteratura (Dostoevskij) e la musica (il pop-rock di Police, Rolling Stones, Frank Zappa, ma anche il jazz e Gilberto Gil), mentre nello studio scorgiamo un disco di Morrissey lasciato sulla poltrona e una prima pagina del quotidiano “Il Manifesto” appesa alla parete. Al chiuso e in esterni, magari anche per strada prendendo un gelato insieme, stimola a parlare le sue clienti per farle sentire a loro agio. Una porta con sè il figlio piccolo, un’altra racconta del proprio arrivo in città, dove - dopo un primo periodo esaltante - sono sopraggiunte la nostalgia e la solitudine. In un clima disteso e piacevole per i protagonisti, le conversazioni si svolgono disinvolte ma un po’ artefatte con esagerazioni e sviolinate - da sindrome della presenza della macchina da presa - su una relazione lavorativa paragonata quasi a quella tra analista e paziente (“nella vita non capita di avere un rapporto così stretto e poi perderlo”) o sulle qualità di una committente in particolare (“ha un quid in più. Non so cos’è, ma è così”). Mentre intorno, in un via vai, oltre ai due obiettivi si muovono aiutanti, parrucchieri, costumisti.
"Photocall" è un mediometraggio veloce e arioso che segue la realizzazione delle fotografie come si trattasse di scatti in serie.
Può soddisfare la curiosità da rotocalco per le rivelazioni private del mondo dello spettacolo, far assistere al processo creativo - dall’allestimento dei set alla scelta della macchina fotografica e della sensibilità della pellicola - oppure, nel peggiore dei casi, essere un modo come un altro di mascherare lo spot pubblicitario per uno studio fotografico.
La frase: "Che stai a fa’ l’attrice, gia ti sei trasformata?".
Federico Raponi
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