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Perfidia











Alla seconda prova da schermo – dopo il mediometraggio “saGràscia” (2011) – sotto la regia del sassarese Bonifacio Angius, Stefano Deffenu è il giovane Angelo, che, senza amore né lavoro, cammina immerso nel grigio inverno di una anonima città di provincia, spendendo le sue vuote giornate in uno squallido bar di periferia e sognando ad occhi aperti la più banale normalità.
Bar in cui affianca altri perdigiorno come lui, mentre il vecchio padre Peppino, ovvero Mario Olivieri, consapevole di non avere più tanto tempo da vivere e mai interessatosi al figlio, dopo la morte della moglie si rende conto di non sapere neppure chi egli sia.
Infatti, è il loro avvicinamento quando ormai, forse, è troppo tardi a trovarsi al centro di quella che, in fin dei conti, altro non è che la storia di personaggi abbandonati a se stessi in una grande solitudine su un pianeta Terra in cui non sembra esservi né pieta, né speranza.
Un pianeta Terra dove non esistono buoni e non vi sono cattivi e di cui il regista decide di raccontare un piccolo angolo – come ve ne sono molti in Italia – attraverso il problema della disoccupazione giovanile, il vuoto quotidiano che ne consegue e la visione clientelare come sua risoluzione che, in realtà, non è mai tale.
Un piccolo angolo che non può fare a meno di essere rappresentato, allo stesso tempo, in qualità di luogo fertile per il semplice, forse impossibile desiderio di già citata normalità, destinata ad apparire sempre più lontana all’interno di esistenze tempestate di attese incessanti e invidia.
Man mano che, tra un primo, non positivo impatto del protagonista con un lavoro in cantiere, visite sulla tomba della madre ed una enigmatica, quasi fantasmagorica ragazza dalle fattezze di Noemi Medas che entra improvvisamente nella sua monotona quotidianità, risulta sempre più evidente, in maniera triste, che la vita sia soltanto un imbroglio.
Un imbroglio che Angius, ulteriormente supportato dalla colonna sonora per mano di Carlo Doneddu, mette efficacemente in scena favorendo lenti ritmi di narrazione, enfatizzandone proprio il “diabolico” potere di rendere apparentemente interminabili le ore di autentici emarginati quali Angelo e il genitore.
Emarginati purtroppo condannati a ritrovarsi in uno stivale tricolore tormentato dalla tanto discussa crisi economica e frustrato a causa della totale sfiducia emersa nei confronti delle figure politiche che lo hanno governato a partire dall’inizio del XXI secolo.
Fino al tutt’altro che banale epilogo di un crudo, altamente pessimista e, di conseguenza, realistico ritratto sociale che, impreziosito dalla lodevole prova del cast e sguazzante tra assenza culturale e mancanza di aspirazioni e passioni, spinge inevitabilmente a tenere d’occhio il suo dotato autore.


La frase:
"Gesù sa già tutto".

a cura di Francesco Lomuscio

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