Paris-Manhattan
L’idea al centro del film dell’esordiente Sophie Lellouche (solo un corto girato nel 1999 al suo attivo) è un pastiche alleniano, dove l’universo del celebre autore americano è presente in buona parte delle sequenze e sulla cui raffinata scuola si snoda la sceneggiatura.
La storia si sviluppa intorno alla vita di Alice (Alice Taglioni), una borghese single un po’ svampita ossessionata da Woody Allen, di cui conserva un poster in camera in stile adolescenziale, con il quale dialoga e da cui si fa psicanalizzare. Attorno a lei – bellissima, sui trentacinque anni e proprietaria di una farmacia nel centro di Parigi – una famiglia seriamente preoccupata non riesca a trovare marito. Ma ecco, dopo diverse frequentazioni interrotte sul nascere e una specie di principe azzurro perso per strada senza una vera ragione, sbucare Victor (Patrick Bruel), un piccolo imprenditore sfuggente e pessimista al punto giusto per entrare in collisione con la sognatrice Alice.
Sembrerebbe una commedia romantica frivola come tante altre ma non lo è (del tutto). Lellouche intende rappresentare qualcosa di più profondo, legato ai rapporti umani e ai sentimenti più in generale. Tenta di ricostruire le ipocrisie e i malesseri di certi gruppi di individui, interrogarsi sulle convenzioni sociali e naturalmente affrontare il grande tema dell’amore. Ci riesce? Poco. I personaggi sono esasperati nei loro ruoli, ritratti in forma macchiettistica, incapaci di generare coinvolgimento e vere riflessioni "sulla vita".
La regista appare troppo suggestionata da Allen e si rifugia timidamente in uno stile sfacciatamente da fan, senza riproporre la stessa acutezza ma stuccando lo spettatore – non necessariamente ossessionato – con i continui rimandi visivi e verbali al microcosmo del genio newyorkese.
Meglio quando la pellicola si sposta su un registro più ironico-sentimentale, territorio più consono all’architettura del progetto. È qui che il tono lieve dell’opera viene fuori in tutta la sua semplicità e grazie a uno stile – quasi sempre – sobrio distribuisce qualche sorriso, utile a trascinare in sala gli amanti del cinema spensierato (travestito da intellettuale, in questo caso) ma dove l’unica vera perla è l’ingresso in scena di Woody Allen per un cameo celebrativo.
a cura di Nicola Di Francesco
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