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Padiglione 22
Una famiglia (padre, madre, due bambini) minata dalla follìa del primogenito e dall’incapacità di gestirla - indicativa in tal senso la preghiera del genitore, col rosario in mano, accanto alla sofferenza psichica del figlio - se non con il ricovero (siamo negli anni ’70). Una delle conseguenze è il disagio della più piccola, che non riesce a stabilire un contatto col fratello. Nella fase adulta, perciò, la morte di lui la sprofonda in una allucinata regressione nel tempo per un confronto risolutivo con il passato, dove immagina un dialogo mai stato possibile, arrivando alla drammatica presa di coscienza che "l’orrore te lo devi portare da sola".
Esordiente nel lungometraggio di finzione, con esperienza nel teatro e nel cinema (dove ha fatto un pò di tutto fino alla regìa di corti, spot pubblicitari e videoclip), per "Padiglione 22" - da lui scritto e diretto - Livio Bordone è stato ispirato da una terrorizzante visita ad un manicomio abbandonato ("li senti? Su queste pareti - si dice nel film - pulsano le loro esistenze rinchiuse"). Da cui ha tratto dapprima un breve monologo, per poi frequentare per mesi uno psichiatra allo scopo di sapere il più possibile sulla malattia mentale e rendere possibile quindi la trasposizione di quell’esperienza in immagini. Nelle quali predomina il buio di interni e labirinti degradati, cosparsi di rifiuti come reconditi angoli della mente e dell’inconscio. Questo perchè, invece di una narrazione razionale e logica, Bordone si è indirizzato su un "viaggio emozionale" - secondo le sue parole - di lunghi silenzi (il parlato è un quarto d’ora in tutto) alleviati dalla "pìetas" di una musica d’archi, con due piani temporali, continui flashback e visioni che spezzano la linearità della storia. E pure la comprensibilità di alcuni passaggi. Inoltre, con la recitazione di un dolore purtroppo solo mimato, la pellicola - in sala nel trentennale della legge Basaglia, omaggiata da un finale con le impressionanti fotografie in bianco e nero (opera di Gianni Berengo Gardin) di "internati" – sprofonda in un incubo esterno ed oscuro anche il pubblico.
La frase: "Come si può vivere un’intera esistenza senza poter mai credere a quello che ti circonda?".
Federico Raponi
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