Meglio precisare: “The Fighter” non è un film (esclusivamente) sulla boxe né un film (solo) sportivo, volendo rinnegare fin da subito la limitante restrizione di genere. Nella prima parte si propone addirittura come un film vagamente “intimista”, schiaffando allo spettatore una generosa manciata di vecchi filmati di repertorio, stropicciati filmini familiari-amatoriali e vecchie foto sui davanzali, unico baluardo di un passato altrimenti invisibile in cui i sorrisi erano speranzosi, autentici e non avevano nulla a che vedere con le leggerezze forzate dalla tossicodipendenza. Tratto da una storia vera (Mickey Ward, idolatrato da Wahlberg che lo restituisce ottimamente, è diventato campione dei pesi welter nel 2000), il film doveva essere diretto in principio da Darren Aronofsky, che ha però ripiegato su “The Wrestler” defilandosi nelle vesti meno precipue di produttore esecutivo. Il timone del progetto che Wahlberg ha menato con appassionata insistenza per molti anni è allora passato nelle mani del rientrante David O.Russell, non esattamente un novizio (suoi Three Kings e il meno convincente I Heart Huckabees), ma piuttosto un litigioso e bizzarro artigiano di culto (e di mezz’età) con fama di scazzottomane e difficile. Il suo decisivo approccio al progetto è stato però di importanza sostanziale: O.Russell non si limita infatti, come da più parti è stato scritto, ad armonizzare abilmente un tetragono di attori ottimi quando non eccelsi, ma si prodiga moltissimo nell'applicare a “The Fighter” la sua anima instabile e vessata dalla vita (“Ho rischiato di non vedere più mio figlio, ho divorziato, ho dovuto pagare i mutui di due case. Se non mi identifico io con Mickey Ward, chi può farlo?”): diretto da lui, il film acquisisce un fascino particolare, una tattilità ruvida, diventa quasi un’energica ballata rock vigorosa ma non rigorosa, un po’ blues, convulsa, vivida e fuori di testa. Una fotografia di un'America muscolare e un po' eccessiva, sia nell’odiare e nell’amare, nel piangere e nel soffrire come nel gioire, un’America corpulenta che rimastica sogni e sputa sangue. Il piatto forte di The Fighter, nonché il motivo primario per cui vale la pena vederlo pur non aspettandosi Toro Scatenato o le Fat City hustoniana, è proprio la sua bellezza diseguale e disarmonica, i suoi veementi ed epici crescendo, che ti inchiodano alla poltrona anche se sai di star vedendo il solito, abusato film che sfocia puntualmente nel "tutto cuore" e "tutta pancia". Il film di O.Russell non ha un tema univoco, non si riesce a delineare con certezza se sia un film sulla boxe, sulla dipendenza dalla droga, o piuttosto sul ricongiungimento umano di un nucleo familiare in frantumi. Fatto sta che avvince e coinvolge, forse proprio per la peculiare messa in scena carica, accorata, amabilmente sovrabbondante. Cullati da Good times bad times si apprende che la famiglia può far male, che la famiglia può guarire. Da urlo le prove degli attori (il sanguigno Christian Bale su tutti).
|