semplicemente si tratta di un film drammatico per chi l'ha vissuto, per chi lo ha raccontato e per chi alla fine, come me, ha deciso di andarlo a vedere, e che si è lasciato scuotere dal di dentro fino al di fuori, versando, senza vergogna, qualche lacrima. Scrivo perchè sento il bisogno di esprimere quello che penso su un film che si pone come obiettivo principale il tentativo di trasmettere (ed esorcizzare) la paura che un uomo, di fronte alla morte, è costretto ad affrontare, la stessa paura che qualche anno fa anche il sottoscritto ha provato per un attimo. "20 sigarette" è un documento di Aureliano Amadei sulla strage di Nassiriya, dalla quale si "salvò" miracolosamente assieme a pochi altri. Un film onesto e coraggioso, con pochi fronzoli, se non quelli rappresentati da un necessario e volutamente decontestualizzato preambolo che introduce protagonisti e spettatori nel vivo della storia. Inutile dilungarsi sulle varie fasi della pellicola, che trova naturale sfogo nel "raccontare" il momento cruciale, nel quale improvvisamente ci si ritrova quando il punto di vista cinematografico diventa la soggettiva visione del protagonista, quando cioè saremo costretti ad esserne protagonisti. La coraggiosa e non facile scelta di imbracciare la telecamera a spalla è un espediente quantomai efficace per dare dinamismo e drammaticità alla scena dell'attentato, finchè, avvolti da rumori ovattati a causa della deflagrazione, saremo costretti a "sopportare" i rantoli di dolore dell'uomo che si trascina, sanguinante, alla disperata ricerca di un modo per salvarsi. Da qui in poi sono numerosi i rovesci della medaglia di un evento, la salvezza, tanto semplice quanto sofferto, che quasi si fa fatica a credere che siano verosimilmente potuti accadere. Il ritorno alla vita normale dopo un lento recupero che non sarà mai completato, il ricongiungimento coi propri cari, temendo il terribile e proverbiale "te l'avevo detto", la patetica sfilata di personalità pubbliche ansiose di incontrare l'eroe in quanto sopravvissuto, lo scontro con chi si autodefinisce eroe tentando di strumentalizzare un evento che di eroico non possiede nulla, l'inevitabile incontro coi familiari delle vittime fino al dover assistere al volta spalle di uno dei tanti presunti amici, che pur professandosi pacifista sostiene apertamente che i morti per una causa comune, nel nostro caso la guerra, devono necessariamente essere considerati in base alla loro appartenenza. Alla fine di tutto, quando un pensiero del protagonista va al momento più terribile tra i tanti vissuti nel vicino passato, rimane soltanto il terrore di un uomo per un dramma che non potrà mai essere dimenticato, e mai sconfitto, ma soltanto raccontato.