Non mi avventurerò in un'analisi tecnico-stilistica del film: non ne ho la competenza; né parlerò di come si possa crescere un bambino vegano: anche di questo, non ho idea, anche se mi pare che questo sia l'ultimo dei problemi. Una domanda mi ha tormentata per tutto il film: Mina è una pazza che diventa madre, o una madre che diventa pazza? Perché inscriviamo nel perimetro della pazzia la determinazione a fare del male al prossimo per seguire una convinzione profonda, magari basata su un istinto, come quello materno, che si presume possa essere solo buono: è vero o no?
È vero o no che il dramma di Hungry Hearts si nutre di una forma di integralismo, limitato all'ambito familiare ma pur sempre devastante?
A pensarci bene, il motore delle azioni di Mina è soprattutto la paura: paura del conflitto ("facciamo come vuoi tu, basta che non alzi mai più la voce"); paura che il marito non si fidi di lei, paura che il mondo sporco contamini la sua creatura pura; paura di quello sparo, del cervo morto e del cacciatore nero che si allontana nel buio; paura dei segni presagio di una fine. E allora la domanda si estende, drammaticamente, all'insondabile scontro tra istinto e ragione.
Molto bello. Un film che è quasi un documentario sociologico. Bravo Saverio Costanzo che non impartisce lezioni, ma lascia aleggiare in sala la conclusione che ognuno puo' trarre diversamente. Non ci sono eroi in questo film, ma neppure "mostri" o colpevoli; la prima ad essere "vittima" è la madre del bambino (del quale non viene mai pronunciato il nome, essendo simbolo di possesso, veicolo di consumo emotivo del genitore); vittima della società, della malattia, di sè stessa. Forse è tutto un po' triste, ma è dannatamente reale. Spiace leggere di persone offese per il presunto attacco al ruolo moderno della madre o al veganesimo. Riguardatelo, non si parla di questo.