Sono felicemente sopreso nel constatare di essere -forse per la prima volta - in netto disaccordo con la recensione che il vostro sito offre di questo film, che a me è piaciuto molto. E' senz'altro difficile per una società frenetica, avida e bisognosa di giudizi (da dare e da ricevere) accettare di sostare, di sospendere, di aspettare, di non sapere, di non capire. Accettare le inquadrature ferme, i piani sequenza, i ritmi narrativi lenti, i dialoghi sommessi, e tutto ciò che richiede pazienza e una certa arrendevolezza. Ma un film su un miracolo è soprattutto questo: l'attesa lenta, il credere, il voler credere, il dubitare, l'affidarsi. Chi va a Lourdes, sia che creda sia che non creda, sta in una dimensione limbica di speranza e di raccoglimento. Ed è questo che la regista chiede a noi di fare. Nel frattempo, ci fa vedere con chiarezza il rumore che si crea attorno a questa attesa e poi attorno all'evento: il cinismo, l'invidia, l'incredulità venata di paura, la superficialità irresistibile dela vita "normale" (le volontarie che flirtano con i militari). "Lourdes" è un film sulla solitudine e sulla paura, sul desiderio e sull'attesa. Sull'amore, direi, anche e soprattutto. La protagonista, probabilmente, guarisce (per sempre? per un po'?) per il puro desiderio di amare e per la fortissima speranza di essere amata. E' forse la sua energia nel desiderare che la fa alzare in piedi e camminare, nonostante la turbolenza di chi, intorno a lei, vuole capire la logica che sta dietro il miracolo, sfidando e destituendo la natura stessa del miracolo. Gli altri non capiscono, non sanno, non vedono. La sua stessa anziana amica non riesce a decodificare questa ritrovata "normalità" e non conosce altro linguaggio che quello del soccorso (è meravigliosa la scena finale in cui la protagonista sorride rassegnata al miracolo ma anche pronta alla remissione dello stesso e accetta di tornare a sedersi sulla sedia che l'amica le offre, in una sorta di resa inconsapevole ma anche di vittoria definitiva). "Lourdes" è un film di riflessione, un lento e progressivo smottamento delle nostre certezze, che ci inchioda (lui sì) per due ore al dolore di chi è mosso dalla sola forza della disperazione. La "Felicità" canora della scena finale, farsesca metafora della vaghezza e della illusorietà dela vita e delle sue vicende, ci imprime una ferita indelebile, che nemmeno il lieve sorriso della protagonista e il suo lentissimo scivolare via dalla scena sulla sedia a rotelle su cui l'abbiamo vista per tutto il film riuscirà a toglierci di dosso, costringendoci a stare nel dubbio e a farci i conti.
Una realta' mai raccontata e cosi' diffusa.
In che modo si potesse raccontare non so: la regista ha fatto una scelta a mio avviso documentaristica, quasi a non voler esprimere una sua opinione.
In realta' la esprime e come.
Per me questo film e' stato come un pugno nello stomaco.
Non si dimentica facilmente la scena del gelato all' aperto..