Un filo sottile lega Tsotsi a Crash, ambedue Oscar, ambedue fotografati con quel colore seppiato di dramma e di riscatto, d'impasto fangoso tra bene e male che ci libera dal manicheismo troppo spesso eretto a sistema.
In effetti quella del giovane gangster Tsotsi sembra una storia sfuggita alla splendida sceneggiatura dell'Oscar maggiore per andare lungo una propria ed autonoma strada, tracciata da un attore protagonista capace di rara intensità emotiva, espressa per silenzi e occhi di inaudita forza espressiva.
Anche se il film sembra trascinarsi per un lungo tratto, con apparente lentezza, sta in realtà costruendo, pezzo a pezzo, scena dopo scena, il percorso esistenziale, il retroterra emotivo che sta dietro la ferocia del gangster, le sue ferite dell'anima che sboccano in una maschera facciale che sembra non possa essere più raggiunta da nulla e da nessuno. Qualcuno deve pagare quel grumo di lacrime e sangue che indurisce Tsotsi, e a turno pagano gli innocenti,i compagni di banda, la donna della middle class che lascia l'auto incustodita. Solo che sull'auto rubata c'è un neonato che fa da detonatore al grumo di pianto e di dolore che opprime fin dall'infanzia Tsotsi. Da quel momento, dal momento che esitante tocca il bambino, Tsotsi tocca tutto il suo tempo perduto, tutta la sua infanzia negata, lo sconcio del ghetto, le violenze subite e salva il bimbo. Lo salva con nausea, con rabbia, con la pistola, con la minaccia, ma lo salva. Entra in contatto con la donna che è madre e osserva sbalordito l'amore che si rifà strada in lui,lo muta,lo piega, gli abbatte tutte le difese e lo lascia nudo e dolorante, ma capace di perdere la vita per quella vita. Così riporta il neonato alla famiglia, in una scena, quella finale, da grande Oscar, da Crash, per intenderci: tesa fino allo spasimo, commento musicale ficcante, asciutta e intensa, fatta di niente in termine di azione, tutta sguardi, volti contratti e al centro Tsotsi che piange e che avvolge tra le braccia il neonato...