Dopo aver letto cririche molto positive,forse mi aspettavo altro. Il film mi è parso un po' piatto e con un finale interrotto, forse perchè legato al testo che è rimasto incompiuto, che mi ha lasciata perplessa.
Si tratta di un film classico, con rare sbavature, con una raffinata regia e contenuti che ribadiscono la capacità già sperimentata di Amelio nell’indagare l’anima e i comportamenti tra infanzia e adolescenza. Ad essa si aggiunge una particolare sapienza nel fornire contesti storici limpidamente suggeriti come sfondo. La retorica, pur in agguato quando l’autobiografia è dichiarata e “doppia”, come in questo caso, non abita qui. Lo stile, pur ricorrendo a modalità quasi antiche (camera su carrello con binari), costumi ispirati a ricordi personali, atmosfere legate al sud da cui si ha origine, è pieno di talento. Con particolare scorrevolezza nel collegare lo ieri e l’oggi dei personaggi principali, Amelio, ispirandosi all’ultima opera postuma di Camus, ricrea insieme la sua infanzia e quella dello scrittore di origine algerina. L’Algeri degli anni ’50, a parte i singoli fatti della grande Storia, è simile alla Calabria dell’autore, intrisa di luce e di mare, nonché alle ristrettezze e alla durezza che non mancarono neppure nella storia di Amelio. La partecipazione con cui egli rievoca è densa e sentita quindi, per niente accademica, con una vivezza espressiva che a volte fa pensare a Au revoir les enfants di Malle. Più spesso si pensa agli altri suoi lavori (Ladro di bambini, Le chiavi di casa, il lontano Piccolo Archimede), in cui il regista dispiega tutta la propria vena umanistica e poetica percorrendo il doppio binario della Storia e delle storie quotidiane di cui tutti noi facciamo parte. Mai però era riuscito a unire con tanta abilità, mischiando e separando,la dimensione privata nella luce malinconica del ricordo-sogno e quella politico-etica indagata e restituita con gli occhi della mente. Nel 1957 arriva in Algeria Camus-Cormery, uno scrittore che ritorna nel paese d’origine al centro di sussulti terroristici e di disordini tipici di una terra che vuole liberarsi dal giogo coloniale. Lo scrittore, pur avendo una sua idea personale di quanto gli si sta muovendo intorno, insegue nell’oggi soprattutto la memoria di un padre perso prestissimo e vuole rivedere la madre, lo zio, il maestro, tutti quei personaggi su cui il piccolo Jacques ha costruito se stesso come uomo. E in ognuno ritrova qualcosa di sé. Sembrerebbe un banale amarcord questa opera dell’autore calabrese e invece, pur nella sua misura fuori dal tempo, è un film che non sa di già visto. Sentimenti, parole, silenzi si snodano come se lo stesso regista temesse di incrinare con un errore l’armonia perfetta di alcune sequenze. Ciò non vuol dire che tutto sia allo stesso livello, ma, se paragonato al livello ordinario della produzione odierna, penso si possa parlare di un ottimo risultato. Attori ed attrici (Maya Sansa e Catherine Sola), ambientazioni, contenuti morali, luce e particolari narrativi (le scarpe), primi piani di sguardi senza parole (quello della madre anziana su cui il racconto si chiude) danno vita a un film da gustare come non si vedeva da qualche tempo.