Attacco al Potere
Tremate popolo. C’è un nuovo duro là fuori: Mike Banning il suo nome.
A 12 anni dall’evento che ha minato il credo, l’orgoglio e le certezze di una delle Nazioni più compatte del globo, ogni occasione è valida per riconfermare quell’ansia di rivincita che fa scalpitare gli animi di chi ha votato cuore e mente alla solennità della bandiera stelle e strisce. Antoine Fuqua torna con un action movie decisamente edificante, monito ai più per ricompattare le linee difensive quando tutto sembra perduto. Con all’attivo un corpus di lavori di notevole risonanza a livello internazionale, Fuqua accresce la propria fama di regista, tenace nell’affrontare problematiche scottanti di chiaro impatto sul tessuto contemporaneo sociale. Al di là di qualsiasi lettura politica, Attacco al potere si distingue principalmente come una pellicola che vuole ironizzare su una potenza mondiale che non ammette sconfitte anche quando accusa ripetute lesioni destinate a evidenziarne il declino. Quanto serpeggia in Training Day, ora si fa palesemente manifesto. Intrighi, inganni e cospirazioni emergono alla luce del giorno per mettere sotto sopra tutto quello che lo Zio Sam incoraggia con un solo gesto. L’America è al tappeto. Tuttavia, tra gli ingranaggi un po’ arrugginiti di un sistema fallace, si nasconde l’ultima vera risorsa. Ex agente dei servizi segreti, Banning/Butler attende un solo segnale per dimostrare a tutti quell’anima battagliera che ancora resiste. Concentrato di forza e muscoli che mixano la tenacia di Bruce Willis, le piroette alla Chuck Norris e lo spirito di sacrificio di un ripetitivo Seagal, questo corpo d’attore rientra alla perfezione in quel sistema di star votate a limare fino all’usura un unico prototipo protagonistico. Tra la polvere di spari, i sibili di pallottole, la confusione generale conseguente al sequestro di ostaggi, resta un minimo margine di pensiero dedicato alla protezione personale. Tutto dovrebbe svolgersi freneticamente, precipitosamente e rovinosamente in un susseguirsi di reazioni a catena che lasciano col fiato sospeso. Invece, a riprova di generazioni filmiche educate a saghe di Arme letali e Duri a morire, sembra tutto l’ennesima variante di uno stesso copione che non riesce a reinventarsi. Resta un’ironia che vuole farsi beffe di quello stesso stereotipo che si sceglie di servire, mentre la tensione scema tra le pause sacrali di Morgan Freeman e un pathos propagandistico che aumenta un patriottismo impossibile da scalfire, anche con una sfilza di botte e risposte molto più degradanti che unpolitically correct come lasciano intuire. Si salva una meticolosa e maniacale cura del dettaglio, perseguita nella scrematura di uno script che riserva qualche spunto interessante. La ricostruzione degli scenari a prova di realismo, la felice intuizione di infiltrati alla luce del giorno, il countdown verificato su una time line che non appartiene al solo profilmico e il richiamo quanto mai attuale di un pericolo tangibile restano i picchi di rilievo di questo thriller non troppo elettrizzante. Machismo e manicheismo in salsa esplosiva ricordano la gloria e il ruolo d’onore di un impero impossibile da oscurare. Sulle note di eroismi da cornamuse, volteggia nell’aria azzurra quell’icona di fierezza che è il simbolo di tutti i fasti. Perché anche con le ferite sanguinanti, quell’America non si piega. Si rialza.
La frase:
- "Stiamo parlando della sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America".
- "Stiamo parlando di molto più di questo".
a cura di Marta Gasparroni
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