Noah
Nel panorama cinematografico americano e mondiale, Darren Aronofsky, a partire dal 1998, si è guadagnato un nome di tutto rispetto, diventando uno dei registi più apprezzati di Hollywood. Nonostante il crescente successo e la sempre maggiore disponibilità di budget, è riuscito a mantenersi in una determinata area del cinema, quella da cui è partito, quella di chi rischia, e lo si vede sia nei suoi "grandi" che nei suoi "piccoli" film. La sua parola d’ordine è sempre stata "ambizione", e se esiste un merito che nessuno gli può contestare è quello di aver costantemente osato, a volte spingendosi troppo in là senza riconoscere i propri limiti, ma sempre nel contesto di più che apprezzabili tentativi di esplorare strade nuove, o almeno "diverse", di narrazione. Se all’inizio della sua carriera ("π - Il teorema del delirio" e "Requiem for a dream") ha seguito questa sua vocazione puntando su una regia sperimentale così forte da sovrastare quasi in toto le sceneggiature (deboli), ha poi cambiato direzione con "The Fountain - L’albero della vita", il suo più grande rischio, visionario, massacrato dalla critica e ignorato dal pubblico, in cui i toni epici e mistici, per quanto a volte un po’ spocchiosi, riescono comunque ad avere un senso all’interno del discorso che il regista vuole portare avanti. I successivi due bellissimi film, "The Wrestler" (Leone d’Oro) e "Il Cigno Nero" (candidato all’Oscar), indubbiamente i meglio scritti nonostante la sua non-collaborazione alla sceneggiatura, hanno dimostrato come il suo sguardo sia efficace anche in una dimensione più intima.
Ora, proprio mentre stava per raggiungere l’Olimpo dei registi viventi, Aronofsky se ne esce con quest’improponibile lavoro a cui non si riesce a trovare un senso.
La storia di Noè non ha bisogno di essere riassunta, essendo un mito fondatore della nostra cultura, e il regista-sceneggiatore, affiancato da Ari Handel, ha scelto di drammatizzare la vicenda inserendovi una serie di personaggi sconosciuti alla Bibbia, nella tradizione dei peggiori biopic. Immancabili, spietati e improbabili nemici da affrontare si contrappongono a una famiglia in cui la metà dei componenti è frutto della fantasia degli autori. E tutto ciò è legittimo, anzi necessario, se si vogliono colmare alcuni vuoti del racconto biblico. Si può anche accettare anche l’idea di rappresentare degli angeli caduti come dei giganti di pietra. Quello che rende il film estremamente irritante è il fatto che non si capisce il perché che ha mosso un regista di un tale calibro a decidere di affrontare quest’impresa. Non è un semplice kolossal, perché tocca temi universali con una certa insistenza, ma non può nemmeno essere un film d’autore, perché troppo spesso tornano strutture e tempi da "americanata". Aronofsky ha perso il controllo di queste due linee su cui avrebbe dovuto muoversi con equilibrio, e in ognuno dei 138 minuti di "Noah" risulta maldestramente sbilanciato da una parte o dall’altra, a tratti di una pretenziosità da vedere per credere, a tratti di una banalità e di un’approssimazione disarmante. Neppure si può dire che qui abbia davvero osato: l’unica cosa davvero ambiziosa del film è la scelta del soggetto, beffeggiata da una sceneggiatura che andrebbe bruciata all’istante.
Purtroppo, nemmeno con il senso dell’umorismo e del ridicolo ci si può divertire molto (anche se in momenti si ride di gusto, come durante i pianti di Emma Watson o la recitazione esagerata di Jennifer Connelly), e il tutto appare solo noioso.
Il film si apre sulla scritta "In principio fu il Nulla", e così ci lascia quando usciamo dalla sala: senza averci regalato nulla.
La frase:
"Io credo nei miracoli".
a cura di Luca Renucci
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