La fuga di Martha
E' la storia di Marta finita non si sa come in una sorta di comunità religiosa (ma di religioso vi è poco o niente) nella profonda campagna americana e del suo ritorno nella "civiltà", dalla sua famiglia costituita dalla sorella Lucy e il cognato Ted. Una vicenda, purtroppo molto consueta questa, soprattutto in America, di adolescenti che vengono accolti in comunità che ne plagiano la personalità e la volontà. Spesso si tratta di ragazzi con vicende familiari e personali costellate da gravi mancanze e lacune e con vissuti di droga o alcolismo.
Il percorso inizia con l'accoglienza in queste comunità che inizialmente si presentano come luoghi di serenità e tranquillità, dove ognuno può esprimere liberamente la propria personalità e dove i vincoli con il passato, e le sue bruttezze da cui si fugge, le sue restrizioni inaccettabili possono essere finalmente per sempre recisi. Percorso, che l'esordiente regista americano Sean Durkin descrive egregiamente centellinando con frequenti flashback la vita di Marta prima e dopo la sua "fuga". E', pero, un percorso straniante il suo. Inizia con una scena notturna con Marta che lascia la comunità e prosegue con una telefonata che accentua il nostro senso di straniamento e inizia a colmare la misura della tensione che studiatamente viene incrementata con inesorabile lentezza. Vediamo Marta "iniziata" ai singolari usi della comunità nella quale la cortesia e la gentilezza dei suoi ospiti iniziano a mutarsi in sospetta autorità. Il disagio di Marta è palpabile come concreta e tragicamente presente è anche la difficoltà di farsi accettare dalla famiglia alla quale ha fatto ritorno. E tra questi due sentimenti opposti e convergenti domina la paura inconscia ma costante di essere ritrovata dai membri della comunità.
L'opera prima di Durkin, presentata nella sezione "Un Certain Regard" a Cannes 2011, ha nella sceneggiatura il suo punto forte. Come detto, l'alternanza delle sequenze girate nella comunità e nella famiglia di Marta, che ci svelano a poco poco le due realtà, è di pregevole fattura e favoriscono il registro thriller, quasi horror, del film. I passaggi temporali quasi impercettibili acuiscono questa sensazione e il risultato finale è la sensazione di ansia che ci accompagna fino alle ultime scene. Tecnicamente il film risulta però a tratti lento e una fotografia stemperata, quasi amorfa, non stimola particolarmente l’attenzione. Protagonista del film è Elizabeth Olsen, la cui fisicità il regista riprende negandone le grazie ed accentuando le asperità di un personaggio contrassegnato per la sua gravità e tristezza.
La frase:
"Non si ha bisogno di una carriera, si può anche solo esistere".
a cura di Daniele Sesti
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