Mario il Mago
Gli effetti traumatici agli inizi della delocalizzazione delle aziende italiane all’Est. L’epoca di riferimento sono i giorni della caduta del muro di Berlino, in un piccolo paese ungherese sospeso nel tempo tra orti, maiali, biciclette e pesca al fiume. Un contrasto di fondo vede da un lato le ingenue speranze di gente semplice e pura, ancora lontana dall’industrializzazione, e dall’altro imprenditori nostrani che considerano l’ex blocco del socialismo reale come terra di conquista dove aprire e chiudere fabbriche a seconda dell’andamento del mercato, e le persone solo come manodopra a basso prezzo. A sintetizzarlo, il direttore di un calzaturificio (lo interpreta Franco Nero, che co-produce il film), personaggio enigmatico che nei momenti liberi se ne sta solitario e pensoso – perso nei propri ricordi - sull’argine a contemplare il corso d’acqua; oppure abbozza sorrisi e ambiguamente tocca la mano della sua caporeparto, dal canto suo preda di un desiderio d’amore e di fuga dalla realtà di un marito rozzo, egoista e violento e di una microsocietà priva di possibilità di autorealizzazione.
Conosciuto soprattutto come documentarista, il cineasta Tamàs Almàsi ha una carriera - cominciata alla fine degli anni ’70 – che comprende regia, sceneggiatura, produzione, fotografia nonchè insegnamento all’Università di Cinema e Arte Drammatica di Budapest. In “Mario il mago”, quella di Almàsi è una messa in scena blanda e anonima, con una recitazione tra l’approssimativo e la macchietta in particolare per quanto riguarda i frequentatori del bar locale, mentre il caratterista napoletano Vittorio Marsiglia è impegnato nel clichè dell’italiano all’estero espansivo, simpatico e paternalistico. Fa eccezione – ed è questa la nota positiva – Nyako Julia, protagonista vittima di un sogno che diventa ossessione delirante, ma uno sciagurato doppiaggio fa il resto dei danni.
La frase: "(il padrone) è bravo, finchè non chiedi l’aumento".
Federico Raponi
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