L'uomo dell'anno
Se consideriamo titoli del calibro di "Good morning, Vietnam" (1987) e "Sesso e potere" (1997), deduciamo che il regista vincitore del Premio Oscar Barry Levinson non è nuovo a mix di satira e politica su celluloide.
Ma questo "L'uomo dell'anno", che vede il sempre ottimo Robin Williams ("Jumanji") nei panni del comico televisivo Tom Dobbs, alle prese con una vera e propria ascesa al potere, incuriosisce per non pochi motivi che, involontariamente o no, riportano alla memoria un certo modo di far ridere profondamente legato alla nostra cinematografia.
Già, perché se la sola idea di partenza non può fare a meno di ricordare da un lato l'epilogo del verdoniano "Gallo cedrone" (1998) e dall'altro la trama dell'apprezzabile low budget "Il punto rosso" (2006) di Marco Carlucci, il personaggio di Dobbs, il quale fa discorsi in pubblico travestito da George Washington e non esita a lanciare frecciatine verbali a Papa Benedetto XVI, sfoggia una comicità che sembra rifarsi in maniera evidente proprio a quella che ha reso celebre il nostro Roberto Benigni ("La vita è bella"), altro artista spesso dedito all'unione di politica e commedia che, guarda caso, Williams dichiarò di adorare ai tempi dell'uscita italiana di "The big white" (2005). E, sempre in quell'occasione, proprio come fa nel film di Levinson, parlò anche ironicamente dell'Italia come unico paese in cui è stata eletta alla camera una pornostar (il riferimento, ovviamente, era Cicciolina alias Ilona Staller).
All'esplorazione di similitudini e punti d'incontro tra la politica americana e gli eventi della cultura pop, quindi, questo è il quadro dentro cui viene sviluppata la vicenda dell'uomo dell'anno in questione, prima dedito allo sbeffeggiamento su piccolo schermo di chi governa gli Stati Uniti, poi suo diretto successore, accompagnato dal manager e mentore Jack Menken, con le fattezze del sublime Christopher Walken ("Il cacciatore"), e dall'astuto autore Eddie Langston, interpretato da Lewis Black ("Mi sono perso il Natale").
Mentre fa la sua entrata in scena una nevrotica Laura Linney ("Mystic river") nei panni della scrupolosa giornalista di software Eleanor Green, la quale scopre che è stato in realtà un errore nel programma installato dalla sua società a provocare l'inaspettata vittoria di Dobbs.
Alla fine, allora, accompagnati da una colonna sonora che spazia da "Political world" di Bob Dylan a "They can't take that away from me" di Michael Bolton, passando per "Bohemien like you" dei Dandy Warhols, scopriamo di aver appreso che il confine tra intrattenimento e politica tende ad essere sempre più sfocato ed indistinto in un paese pesantemente dominato dai media.
Ma anche che lo abbiamo fatto attraverso la visione di un'operina che, seppur a tratti divertente, risulta guardabile e niente più.
La frase: "Un buffone non governa il regno, si prende gioco del re".
Francesco Lomuscio
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